...cosa c’è di più primordiale del big-bang? [...] ho usato la forma del solido platonico con all’interno “congelato” il magma del vetro fuso incandescente: come metafora della creazione. E l'ho messa lì a confronto con l’esplosione di creatività del passato.
Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio
Giacinto Di Pietrantonio: Mentre aspettavo ho girato un po’ nello studio e ho visto che appeso alla parete, di fianco ad un “fac-simile” della scultura di Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, ho visto una sorta di Manifesto...
Fabio Novembre: La scultura di Boccioni originale è alta 126 cm. Quella che ho io, derivata dalla scansione 3D dell'originale per il Padiglione del Comune di Milano all’Esposizione Universale di Shanghai del 2010, che avevo progettato.
G.D.P.: Tornando al manifesto di cui parlavo, leggevo che il progetto parte da tutto. Parte dagli amici, dai film, dalla passione, dai libri, dai tatuaggi...
F.N.: Si, parte da tutto. Non c’è una vera e propria partenza, ma un fronte allargato che va dalla fidanzatina del momento al raggio di sole, a quello che hai letto sul giornale. Parte da tutto e da niente.
G.D.P.: Vedo anche una mappa disegno di Mendini attaccata al muro del tuo studio.
F.N.: Una storia molto bella. A me le mappe di Mendini sono sempre piaciute un sacco, per cui tanti anni fa lo chiamai e gli chiesi se potessi commissionargliene una. Lui si arrabbiò molto, dicendo che le mappe non le faceva per venderle, ma le regalava a chi voleva lui. Dopo quell’episodio non ci siamo parlati per lungo tempo, benché io continuassi ad avere una grande stima di lui, perché è sempre stato molto importante per il mio lavoro. Sono stato molto influenzato dal suo lavoro, dai suoi scritti, dalle sue mostre e ho un debito enorme nei suoi confronti, come con Ettore Sottsass. Comunque, qualche tempo dopo esce un suo libro di scritti per Skira Editore che mi vedo recapitare, lo apro e nella prima pagina c’è una dedica-disegno-mappa di sua mano per me. Un sogno che si corona, così l’ho fotografata, ingrandita e appesa al muro.
G.D.P.: Sei, comunque, partito da Lecce per venire a Milano?
F.N.: Sono arrivato da Lecce che non avevo neanche 18 anni a studiare al Politecnico.
G.D.P.: Dunque avevi in mente già da allora di fare l’architetto?
F.N.: La verità è che non avevo le idee chiare come tutti i diciassettenni del mondo...
G.D.P.: Cosa avevi fatto prima, il Liceo Artistico?
F.N.: No, Liceo Scientifico. Già fare lo Scientifico voleva dire che non eri né carne né pesce e a quel tempo Architettura voleva dire continuare a essere né carne né pesce...
G.D.P.: Parliamo degli anni?
F.N.: Mi sono iscritto al Politecnico nel ‘84 – ‘85. In quegli anni la Facoltà di Architettura era quella che originava molti nuovi mestieri. E alla fine mi sembrava quella dove c’era una sottile linea di confine tra discipline umanistiche e scientifiche che ti teneva un po’ al riparo da tutto, perché uscito da Architettura potevi fare tutto. Così potevi continuare a rimandare la decisione su cosa fare. Ecco perché tanta gente sceglieva di fare Architettura.
G.D.P.: A quali nuovi mestieri generati dalla Facoltà di Architettura ti riferisci?
F.N.: Grafici, designer, pubblicitari, tutti quei mestieri che poi sono diventati scuole, indirizzi universitari precisi. Architettura era un mare magnum, c’era persino l’esame di filosofia, di letteratura.
G.D.P.: Per questo hai scelto Milano?
F.N.: La vita è strana, perché se devo proprio dirla tutta, all'inizio volevo andare a Firenze o a Venezia.
G.D.P.: Perché Firenze, o Venezia?
F.N.: Perché mi sembravano più interessanti, più belle come città. Ma allora mio fratello studiava a Milano già da un anno e decisi di venirlo a trovare. Mi portò al parco Lambro in una giornata di sole e mi accorsi che Milano non era poi così brutta. Fu così, casualmente, che decisi di iscrivermi al Politecnico. Le cose che ti cambiano la vita sono sempre casuali. Se avessi studiato architettura a Firenze, o Venezia, sarei rimasto ai margini. Milano negli ultimi cinquant’anni è stata il centro della cultura italiana e alla fine sono molto contento di averla scelta. Oggi considero Milano l’unico posto in cui si possa vivere in Italia. Se hai un’ambizione, un respiro, una voglia di internazionalità, Milano è l’unico posto in Italia in cui la puoi trovare, l’unica città che ha un filo diretto con le altre metropoli del mondo.
G.D.P.: Hai avvertito questo fin dagli inizi?
F.N.: All'inizio Milano mi sembrava Hollywood: gli inizi sono sempre entusiasmanti. Poi crescendo senti che le cose ti stanno un po' strette...
...non mi trasferirei mai in un posto più piccolo, eventualmente penso a un eventuale upgrade. Nel mio vocabolario il downgrade non esiste. Recentemente penso a un sabbatico a Los Angeles...
G.D.P.: Cosa accade una volta uscito dal Politecnico?
F.N.: Come tutti quelli della mia generazione non riesco a fare architettura.
Non sapevo e non so disegnare. I limiti vanno sempre trasformati in opportunità, non avere certe abilità ne affina delle altre. Ad esempio io ho sopperito a questa mia assoluta incapacità adottando la scrittura come mezzo espressivo. Quindi la costruzione di ogni mio lavoro assomiglia molto a quella di un film: parto dalla sceneggiatura, faccio il casting dei materiali, e quando tutto è pronto inizio a girare.
G.D.P.: La tua tesi di laurea prevedeva un progetto d’architettura?
F.N.: La mia tesi di laurea è un libro...
G.D.P.: Che libro?
F.N.: Ha per titolo A sud di Memphis, pubblicato poi da Idea Book con prefazione di Ettore Sottsass. Mendini diceva: “Fabio, quello è il tuo più bel prodotto” (ride)
G.D.P.: E tu?
F.N.: Ho riscritto la storia del progetto secondo me, partendo dal passato e immaginando il futuro: "A sud di Memphis".
G.D.P.: Il temine sud era adottato in quanto tu provieni dal sud dell’Italia?
F.N.: Il sud è per me la cultura ignorata, le sottoculture, le culture dimenticate e siccome allora Memphis rappresentava per me il limite estremo dello sviluppo progettuale in ambito occidentale, per evolvere Memphis bisognava rivolgere lo sguardo a un sud teorico. Questo è il succo della tesi sostenuta nel libro.
G.D.P.: Arrivando qui la prima cosa in cui ci si imbatte sono il portone e il cancello in ferro battuto, vetri e altri materiali che recuperano il linguaggio vernacolare, senza voler dare ad esso un valore diminutivo...
F.N.: Io di natura non do un valore diminutivo a niente. Le cose mi piacciono indipendentemente dalla considerazione degli altri. Portone e cancello sono fatti dal mio bravissimo amico Duilio Forte. Il grande mosaico all'ingresso dall'altro bravissimo amico Orodè Deoro. È sempre più difficile distinguere tra vernacolo e mainstream. Comunque, il mainstream mi piace quando si parla di audience, ma quando devi pescare riferimenti per l’opera è difficile prenderli dal mainstream. In questo senso David Bowie è un’interessante metafora: lui ha sempre avuto un’anima totalmente underground, ma ha raggiunto un’audience assolutamente mainstream. Un equilibrio magico che tutti dovremmo inseguire e se lo raggiungi hai fatto Bingo!
G.D.P.: Con questo libro hai fatto Bingo!?
F.N.: No.
G.D.P.: E con Memphis come andò?
F.N.: Generazionalmente non potevo farne parte, ma ho inseguito fino allo sfinimento Ettore Sottsass per avere la prefazione al mio libro. Alla fine ha ceduto e me l’ha fatta. Una prefazione bellissima che lui stesso ha usato molte volte. A quel tempo ancora non si usavano i computer e per far architettura dovevi saper disegnare. Notoriamente io non so disegnare, quindi appena laureato ho capito che non sarei mai stato preso a lavorare presso uno studio di architettura.
G.D.P.: Ma dal lavoro che fai si deduce che hai anche una grande cultura artistica, figurativa.
F.N.: Sì, ma io metto insieme le cose, sono un dj del progetto...
...per esempio, ho trovato sempre un po’ onanisti i progettisti innamorati dei propri schizzi. Per me la forza delle idee ha sempre qualcosa di democratico. Infatti le mie idee le lascio sempre sedimentare, le faccio vedere a tutti. Se iniziano ad accendere qualcosa negli altri le prendo in considerazione. Devono sempre subire una serie di passaggi, se li superano vuol dire che hanno la dignità per prendere vita.
G.D.P.: Sono persone di fiducia quelli a cui fai vedere i progetti?
F.N.: No, li mostro a un pubblico allargato. E comunque la vera modernità oggi sarebbe fare semplicemente molto meno. Io sono uno che si autolimita molto. Se guardi il corpus dei miei lavori vedrai che ne ho fatti, anche numericamente, pochissimi in 22 anni di lavoro. Io devo distillare, fin da ragazzino ho avuto l’idea del "best of" come quella dei cantanti che fanno tante canzoni e poi, a un certo punto, fanno il disco con tutti i grandi successi.
Ma dico: Non potevate fare direttamente il "best of"?
G.D.P.: Tornando alla svolta?
F.N.: Avendo preso coscienza della difficoltà di lavorare in uno studio di architettura, dopo la laurea andai a New York a studiare cinema. Lì è stato interessante, perché ho unito i miei studi d’architettura con la parte di storytelling, narrazione. E il cocktail è stato molto forte.
G.D.P.: Che cinema, recitazione, regia?
F.N.: Assolutamente regia, mi piace raccontare storie. Questo cocktail si è messo casualmente in moto quando incontrai Anna Molinari di Blumarine che mi offrì di fare un suo negozio a Hong Kong. A quel tempo, era il ’94, l’Asia non interessava agli architetti italiani, non era considerata un mercato interessante perché facevano ancora tanti soldi in Italia e in Europa. Io a New York avevo amici molto interessanti come Izhar Patkin, Jim Jarmusch, Carlo McCormick e la gente ti sceglie anche per il gruppo a cui appartieni. La Molinari mi scelse per la coolness delle mie frequentazioni accompagnata dalla teorica garanzia di una laurea in architettura. Naturalmente accettai, pur non avendo mai fatto niente prima, ma misi la condizione che, per poterlo fare, dovevo andare sul posto a seguire il cantiere. Andai e in qualche mese feci il negozio che ebbe molto successo e così me ne fece fare altri, anche perché fui molto bravo a mediatizzarlo.
G.D.P.: Com’era il negozio di Hong Kong?
F.N.: Fantastico, intanto ero andato a qualche sfilata per vedere come funzionava, quindi avevo cercato di replicare quell’atmosfera delle top model in passerella per soddisfare il desiderio di ogni cliente di essere una di loro. Il negozio infatti partiva da una passerella in cemento nero bordato di mosaico oro che dall’entrata conduceva a un mega schermo in cui i video delle sfilate riproducevano le modelle a grandezza naturale che sembravano venirti incontro. Quindi chi entrava, camminando sulla passerella si sentiva una di loro, bella tra le belle.
G.D.P.: Un approccio che veniva dal mettere insieme architettura, studi di cinema e frequentazione della moda?
F.N.: Dalla soddisfazione di un desiderio. La vanità femminile fa parte del gioco della seduzione. C'era questa passerella su cui ti venivano incontro le modelle coperta da un soffitto di rose rosse in vetro soffiato di Murano, ai lati della passerella, nascosti da tende di velluto blu appese con catene, avevi gli abiti. La curiosità femminile della cliente veniva quindi solleticata dalla tenda chiusa inducendola a vedere cosa c’era dietro. In vetrina, invece, avevo messo un camerino di prova con le pareti in cristallo liquido comandate da un pulsante che lo rendeva opaco o trasparente. Dunque la cliente che entrava a provare l’abito poteva decidere per l’intimità assoluta, o per mettersi in mostra mentre provava i vestiti. Ogni donna poteva decidere se fare, o meno, un peep show in vetrina. C’era anche il pavimento con un grande occhio di mosaico che guardava sotto le gonne. Era assoluta regia narrativa. Ricordo che prima dell’inaugurazione andai a farmi la doccia e cambiarmi. Tornando vidi il negozio con distacco e dissi a me stesso: ok, questo è un mestiere che posso fare.
G.D.P.: Dunque spostavi molto il progetto sulla narrazione.
F.N.: Sì, la narrazione mi interessava e mi interessa tutt’ora. Nel mio lavoro tutto è narrazione...
...tra i primi progetti che ho fatto c’è il locale notturno L'Atlantique di Milano in cui vendetti il progetto al cliente solo con uno scritto.
G.D.P.: Cosa raccontavi in questo scritto?
F.N.: Come immaginavo quel posto, ma era la tipologia della scrittura a essere interessante: mezza in poesia, mezza in prosa.
G.D.P.: Hai parlato di bluff, una pratica molto usata dagli artisti per convincere le persone della bontà del loro lavoro.
F.N.: Non esattamente, avevo comunque una laurea in architettura. E poi se non inizi come fai? Nello specifico poi, io non credo nelle specializzazioni. Per la gente facevo una discoteca e diventavo esperto di discoteche, facevo un hotel e diventavo specialista in alberghi. È una stupidaggine, non bisognerebbe mai fare sempre la stessa tipologia di lavoro, è una falsa idea di professionalità specializzata. Dovremmo tutti costringerci un po' a vagare tra le diverse discipline del progetto.
G.D.P.: Qui siamo tra architettura, cinema, arredamento...
F.N.: Gli interni per me sono sempre stati una cosa facile, entro in un ambiente e riesco subito a immaginare come sarà. L’architettura è più complessa, ci ho messo anni a maturare una mia sensibilità per l’architettura, mentre per il design si può dire che ci sono nato: la mia famiglia vendeva mobili. Nel 1988, ancora studente, vinsi un concorso per il progetto di una sedia. Ricordo che andai da Cappellini con il progetto e lui mi disse:
Fabio io non cerco oggetti, cerco visioni
Tornai nel 2001, già abbastanza affermato nell’architettura d’interni, e gli dissi:
Giulio, ecco la mia visione." Era il tavolo con le 175 gambe di corda.
G.D.P.: Ad un certo punto hai lavorato con Bisazza, leader del mosaico?
F.N.: Sono stato per un periodo loro Art Director. Il mosaico mi è sempre piaciuto. Ho sempre avuto un’idea dell’architettura da dentro a fuori: la prima sensazione di spazio l’abbiamo nel ventre materno. Sono quindi sempre stato portato ad arrotondare le superfici, a riprodurre la sensazione del corpo e per farlo sentivo il bisogno di una pelle. Per molti miei spazi questa pelle è stata il mosaico, fatta di tesserine lucenti, colorate come caramelle, quasi commestibili. Ho usato tanto il mosaico fin dal primo lavoro e con il passare degli anni mi accorgevo che il catalogo di Bisazza si riempiva man mano di miei lavori, allora nel 2000 io e Piero Bisazza ci siamo guardati in faccia e gli ho detto: “Chi è il miglior successore di Mendini per interpretare il materiale? Inevitabilmente io.”
Abbiamo usato il mosaico in maniera completamente diversa: Alessandro come una tavolozza, bi dimensionalmente, io come una pelle.
Era anche una cosa generazionale, Piero Bisazza mi fece notare che io non avevo nessuna idea preconcetta sul mosaico (usato molto nei bagni pubblici) e questo mi rendeva assolutamente libero nell'interpretarlo. Per me era una cosa nuova ed entusiasmante. E come Art Director facevo i loro spazi quindi continuavo a fare quello che sapevo fare meglio. La mia art direction è coincisa con il periodo in cui Bisazza ha raggiunto il maggior fatturato. Ma la mia era sperimentazione pura: ricordo un enorme cuore di mosaico fatto per lo stand Bisazza alla fiera di settore del CERSAIE a Bologna... Con il dovuto rispetto, un po’ come fece Tibor Kalman con Colors.
G.D.P.: Tornando al ventre materno, caratteristica di molti tuoi lavori, lo ritroviamo anche nella stanza Intro che hai realizzata per la mostra Stanze, curata da Beppe Finessi per la Triennale di Milano. Mi è sembrato un progetto molto forte?
F.N.: Si, anche per la presenza del sonoro...
G.D.P.: Ma sai che non ricordo la presenza del suono?
F.N.: Veramente? Forse perché sei stato poco tempo... Sai, la mia vita fino a un paio di anni fa è stata una galoppata di felicità e successi, ma all'improvviso ho ricevuto un pugno in faccia: la separazione. Sono stato lasciato da mia moglie. Lì è andato in crisi il mio mondo di certezze e il lavoro di cui parliamo, Intro, è stato una sorta di 8 1/2 felliniano, un punto di svolta. Nello stesso periodo ho fatto il divano Adaptation per Cappellini e la lampada Lantern per Kartell, tutte tessere di un mosaico attraverso cui sto cercando di ritrovarmi, con una piroetta.
Intro è una piroetta: lasciare che tutti entrino dentro me stesso mi aiuta a ritrovarmi, perché io mi ritrovo sempre attraverso gli altri. Ho fatto quel progetto di getto, quasi in trance, e tutti mi chiedevano: "cosa c’entrano le due vestali all’ingresso?" Non sapevo rispondere, finché Italo Rota, che mi conosce bene, mi ha detto: “Fabio le due vestali sono le tue figlie che ti proteggono.” I miei due angeli custodi che mi proteggono. Guarda, io sono uno che ha sempre messo l’amore al primo posto. Tutta la mia vita è stata una storia d’amore.
G.D.P.: Quindi cerchi di ricostruirti come?
F.N.: La donna per me è ispirazione, musa. Il calore, l’affetto, la fisicità sono fondamentali. Ricordo che Ettore diceva che le superfici le devi leccare. Dobbiamo misurare le cose con il corpo, toccarle, leccarle. Per esempio, il rapporto che la gente ha con l’architettura è solitamente mediato dalle foto, ma l’architettura va vissuta. L’architettura, se ne vuoi parlare, devi metterci il corpo dentro, alzare le braccia, sentire le correnti d’aria. Ad esempio, ho fatto un viaggio in Spagna nel Natale del 2015, e altro che Bilbao, la cosa che mi ha colpito di più è stata la Mezquita di Cordoba, un grande pastiche moresco-gotico-rinascimentale che, esperito con il corpo, lascia senza fiato.
G.D.P.: In questo giro del mondo a un certo punto approdi a Bergamo, invitato da Gianluigi Ricuperati per la mostra DimoreDesign. Ti viene proposto di esporre a Palazzo Terzi, una delle dimore storiche più prestigiose della città. Come reagisci all’invito di confrontare la tua ricerca contemporanea con il passato?
F.N.: Propongo un lampadario a forma di solido platonico che esprime l’universo. Sono stato sempre attratto dal vetro soffiato, ma anche dal vetro in generale. Il vetro è il più naturale dei materiali di sintesi. Una sintesi che percepiamo come naturale e dunque una sorta di contraddizione, di paradosso della materia. Poi quando lo si lavora è materia vivente, è colata primordiale, è puro fascino. E cosa c’è di più primordiale del big-bang? Ecco perché ho usato la forma del solido platonico con all’interno “congelato” il magma del vetro fuso incandescente: come metafora della creazione. E l'ho messa lì a confronto con l’esplosione di creatività del passato.
G.D.P.: Abbiamo parlato del tuo rapporto con l’architettura, la scrittura, il design, il cinema ...
F.N.: Il cinema è fondamentale, infatti molti mi hanno chiesto e mi chiedono se non mi fosse mai venuta la voglia di fare un film dopo gli studi cinematografici. A dirti la verità, mi sono reso presto conto che stando dietro la macchina da presa si perde la magia dello spettatore, e quella magia è una cosa che io voglio assolutamente conservare. Facendo l’architetto questo mi è possibile perché io sono il primo cliente degli spazi che faccio, e mi devono travolgere, affascinare, esattamente come avviene per il pubblico che li frequenterà. Per me la magia è una componente essenziale che non voglio perdere. Quando fai il regista devi essere troppo controllato. Le cose devono invece farmi tornare bambino, altrimenti non funzionano.
G.D.P.: E l’arte in mezzo a tutte queste cose ha un ruolo nel tuo lavoro?
F.N.: Si, l’arte c’entra da morire perché quando sono andato a New York a studiare regia cinematografica mi mantenevo facendo l’assistente alla Holly Solomon Gallery. Lei mi aveva preso in super simpatia e ho conosciuto tante persone come Kim Mac Connel, Nam June Paik, Izhar Patkin che era come mio fratello. Ho conosciuto il lavoro di Gordon Matta Clark, una rivelazione, perché è stata la linea di giunzione tra l’arte e l’architettura. Infatti scrivevo anche per Modo, allora diretta da Cristina Morozzi. Scrissi di Gordon Matta Clark, di Wodiczko e di altri autori importanti al tempo poco noti in Italia. Comunque, il mio contatto con l’arte è avvenuto prima, già nel ’90 ai corsi di Corrado Levi al Politecnico che invitava tanti artisti. È lì che conobbi Izhar Patkin che seguì il giorno dopo per fargli da assistente per la Biennale di Venezia. Un’esperienza unica. Tra l’altro, eravamo ospiti a casa di Romeo Gigli, dove c’era anche Ettore Sottsass. Poi alle Corderie montavamo la mostra e due spazi più avanti c’era Jeff Koons che montava Made in Heaven. Questo, per un giovane studente di provincia, era un sogno che si avverava e quelle cose lì poi te le porti addosso per sempre.
G.D.P.: Hai lavorato per tante super aziende: Blumarine, Cappellini, Kartell, il Milan, la FIAT. Per Lavazza cosa hai fatto?
F.N.: Per Lavazza le cose più inaspettate, come la mostra per i vent’anni del calendario in Triennale, le mostre di Steve McCurry, il Padiglione Expo a Milano, molti saloni del Gusto. Quando vogliono qualcosa di molto particolare si rivolgono a me.
G.D.P.: Hai una tipologia, un format che replichi per loro.
F.N.: No, ogni volta una storia diversa. Sin da Blumarine dove, totalmente in contrasto con quello che si dovrebbe fare: ovvero creare un’immagine replicabile che serva all’identificazione del brand, feci negozi uno diverso dall'altro, in cui la mia mano era l'unico elemento unificante.
Io cerco di non fare mai la stessa cosa, altrimenti non mi diverto e non cresco.
G.D.P.: Per FIAT?
F.N.: La cosa che mi è piaciuta di più è stata quando dovevano fare il lancio della FIAT 500 cabrio. L’allora Sindaco Moratti mi aveva chiesto di pensare a delle fioriere/dissuasori da collocare in Via Montenapoleone. Misi le due cose insieme e mi inventai le 500 cabrio in vetroresina da cui venivano fuori degli alberi. È venuto fuori un lavoro che ha fatto il giro del mondo. È stato uno dei maggiori eventi di comunicazione per FIAT. Pensa che è entrata anche nel gioco di Super Mario, dove una delle prove è fatta con quelle mie 500...
G.D.P.: Ora a cosa stai lavorando?
F.N.: Ultimamente lo studio tende sempre più verso l’architettura.
G.D.P.: Come nasce il lavoro con il Milan, eri già un suo tifoso?
F.N.: Non ero tifoso di nessuna squadra, però amo il calcio e il bel gioco. La collaborazione nasce dall’Amministratore Delegato del Milan, Barbara Berlusconi, che mi chiamò quando si accorsero che avevano bisogno di una nuova sede, più funzionale e rappresentativa di quella storica in Via Turati.
Abbiamo lavorato insieme per creare la nuova immagine del Milan a partire dalla nuova sede nell'edificio modernista di Gino Valle. Un lavoro che ha riguardato gli interni ma anche l’esterno, che è stato connotato con strisce radiali rossonere. Non è stato semplice toccare un'architettura d'autore, abbiamo dovuto convincere gli eredi di Gino Valle, soprattutto il figlio, un lavoro duro e lungo. Ma anche questa è architettura, perché si parla di espressività. Infatti Adidas mi ha chiamato per fare una cosa simile per il loro headquarter, sto lavorando per Lamborghini e progettando la nuova sede di Gufram nelle Langhe.
G.D.P.: Ma per il Milan hai fatto tutto, anche le maglie.
F.N.: Una cosa molto anomala, perché Adidas solitamente non lo lascia fare, ma occupandomi di tutta l'immagine ho la possibilità di esprimermi in diversi ambiti. Ho disegnato le nuove maglie con le strisce rosse che sembrano colature di sangue. Rivoli di sangue, simbolo della battaglia-partita in corso.
G.D.P.: Mi pare un bel salto, dare figuratività all’astrazione.
F.N.: In cinquant’anni ho capito che non è possibile accontentare tutti, quindi devi sposare una causa in cui credi, che ritieni giusta, e portarla avanti. Fanculo.
G.D.P.: E con questo finiamo l’intervista.
BIO
FABIO NOVEMBRE (1966) è nato a Lecce. Dopo la laurea in Architettura, ha frequentato un corso di regia cinematografica presso la New York University. Dopo pochi anni gli viene commissionato il suo primo lavoro di architettura d’interni: il negozio di Anna Molinari Blumarine ad Hong Kong. Nello stesso anno apre il suo studio a Milano. Dal 2000 al 2003 è art director di Bisazza, contribuendo al rilancio internazionale del marchio. Dal 2001 collabora con le maggiori aziende del design italiano quali Cappellini, Driade, Meritalia, Flaminia, Casamania.
Nel 2008 il comune di Milano gli dedica una grande mostra monografica presso lo spazio espositivo della Rotonda di via Besana, dal titolo Insegna anche a me la libertà delle rondini. Nel 2009 il Triennale Design Museum di Milano lo ha invitato a curare ed ideare una mostra sul suo lavoro dal titolo Il fiore di Novembre. Nel 2010 il Comune di Milano si fa rappresentare da un allestimento che disegna e cura Novembre, all’interno del Padiglione Italia dell’Expo di Shanghai.
PALAZZO TERZI
Palazzo Terzi, realizzato nel XVII secolo, è il più importante edificio barocco della parte alta di Bergamo. La sua storia, così come quella della città, è una storia stratificata, fatta di continui mutamenti. Proprio per questo motivo furono necessarie per la sua realizzazione due fasi edilizie e quasi un secolo di costruzioni, soluzioni tecniche, abbellimenti e rifiniture. L’edificio si presenta oggi con un ampio terrazzo e un colonnato antico nella parte esterna, mentre all’interno è caratterizzato da un susseguirsi di sale che si differenziano per forme e colori rendendo il palazzo un vero e proprio sfoggio di ricerca dell’eccellenza. Tra i personaggi illustri passati dalla dimora vanno menzionati i due imperatori austroungarici Francesco II e Ferdinando I, e lo scrittore tedesco Herman Hesse che scrisse di palazzo Terzi: "si scorgeva un cortile con piante e una lanterna, oltre il quale due grandi statue e un'elegante balaustra si stagliavano nitidi, in un'atmosfera trasognata, evocando, in quell'angolo stretto tra i muri, il presagio dell'infinita lontananza e vastità dell'aere sopra la pianura del Po."