Puntata 9
MATTEO RAGNI INCONTRA VILLA GRISMONDI FINARDI
IO MI SENTO PIù UN CAMALEONTE: ENTRO IN SINTONIA, CERCO DI PRENDERE IL COLORE DEL CONTESTO PUR PRESERVANDO LA MIA IDENTITà.
Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio
Giacinto Di Pietrantonio: Che studi hai fatto per approdare al progetto, scuola di architettura, o come molti più recentemente scuola specialistica di design?
Matteo Ragni: Senza risultare troppo nostalgico, devo dire che sono contento del mio percorso di studi di architettura compiuto presso il Politecnico di Milano. Fin da piccolo ho sempre sognato di fare l’architetto, non sapevo esistesse la professione del designer. Mia madre pensava che avrei potuto fare l’ingegnere, perché ero un bambino molto ingegnoso e spesso costruivo e modificavo gli oggetti.
G.D.P.: Ma prima di studiare architettura avevi fatto studi artistici?
M.R.: No, mi sono diplomato al Liceo Scientifico e ammetto di avere qualche rimpianto. Vico Magistretti diceva che gli studi umanistici ti preparano a qualsiasi professione. Mio fratello, che ha fatto il Liceo Classico, è decisamente più colto di me. Devo dire che aver studiato architettura e aver virato solo in un secondo momento verso il prodotto, è una scelta che mi ha fatto molto bene dal punto di vista culturale.
G.D.P.: Hai studiato con Magistretti?
M.R.: Purtroppo no: mi sono immatricolato l'anno in cui Achille Castiglioni ha smesso di insegnare al Politecnico. Ho proprio perso il treno dei grandi Maestri italiani. Tuttavia mi sono fatto la mia scuola, perché dal secondo anno di università sono andato a bottega dall'architetto Carlo Pagani, che era stato l’assistente di Giò Ponti negli anni Cinquanta e che mi ha fatto scoprire il mondo del design, in qualche occasione presentandomi anche personalmente i suoi “eroici” colleghi come Zanuso e Castiglioni.
G.D.P.: Una scuola fuori dalla scuola?
M.R.: Ho trovato un maestro fuori dalla scuola istituzionale e ho imparato soprattutto un'attitudine curiosa e aperta: un insegnamento fondamentale per il mio mestiere. Gli studi in architettura mi hanno dato una solidissima base progettuale e culturale. Mi ripeto spesso che un architetto può fare il designer, mentre il contrario non può accadere. E non è solo un problema di laurea e di competenze. È una questione di scala: nell'architettura vivi dentro il prodotto, mentre il design vive nelle mani degli esseri umani.
Anche se oggi stiamo andando rapidamente verso una ridefinizione delle aree disciplinari contemplate dal design, il designer diventa sempre più un progettista di processi e di sistemi culturali, oltre che funzionali.
G.D.P.: In che modo?
M.R.: Non parliamo più di prodotto, ma di esperienza, parola molto abusata, insieme a storytelling. Tuttavia questi termini raccontano molto bene che la costruzione del prodotto è solo una piccola parte del processo creativo, perché oggi è normale avere dei prodotti iper performanti, la cui funzione è anche emotiva e affettiva. Il design non si occupa di consumismo, ma di oggetti che durano, che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, con cui stipuliamo un patto identitario. Il ciclo di vita del prodotto è fondamentale, l'obiettivo è che sia progettato quanto l'oggetto stesso.
G.D.P.: In questo senso sono iconici i progetti per TobeUs, le automobiline di legno?
M.R.: TobeUs è frutto della mia esperienza personale. Dopo essere diventato padre cambia il tuo modo di pensare: dall'io nasce il noi, nasce un'etica del futuro. Tanto che il mio modo di pensare a tutto il mio lavoro è cambiato dopo la paternità. Qui il design è inteso più come una disciplina che integra un pensiero ampio, più universale.
Queste macchinine sono espressione di un’attitudine al progetto tanto forte da diventare un manifesto.
All’inizio ho disegnato delle automobiline per i miei figli, poi ho iniziato a coinvolgere altri progettisti, prima i miei amici Iacchetti e Fioravanti, poi i maestri del design come Mendini, Bellini, Branzi, De Lucchi, Lupi, Guerriero... Oggi sono coinvolti più di 150 designer. Tutti hanno sposato l'idea in modo gratuito, diventando testimonial di un modo di fare progetto che esce dal paradigma capitalistico. Con il progetto 100% TobeUs ho fatto una mostra a Milano, poi diventata itinerante a Toronto, New York, Mosca, Santiago del Cile. Ad ogni tappa si aggiungevano nuovi modelli disegnati da altrettanti designer locali.
G.D.P.: Un progetto coinvolgente, in progress?
M.R.: Sì, è la sua natura. Le regole sono semplici: con due linee dai forma a un blocco di legno che, al principio ha sempre le stesse dimensioni per tutti. E la macchinina diventa ogni volta una cosa diversa. Il blocco di legno è di cedro del Libano, un'essenza che ha un profumo intenso e delle venature particolarmente interessanti.
Alessi ha creduto in questo progetto sponsorizzando la prima mostra al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. In seguito, ogni volta la mostra ha raggiunto altri paesi e si è arricchita di 10 designer, che hanno lavorato con legno autoctono, curatore del luogo e un falegname locale. L’altro aspetto positivo è che abbiamo creato un sito open source, dove chiunque può scaricare il file, disegnare la sua macchinina e inviarcela, entrando a far parte di una collezione digitale. E da aprile saremo esposti al Triennale Design Museum con uno spazio dedicato e una app!
G.D.P.: Tu lavori sia per l’industria che con gli artigiani, come nel caso di cui abbiamo appena parlato. Quali le diversità?
M.R.: Diciamo che non sono un malato di artigianalità o di industria, prendo quello che ritengo buono da ognuno di loro. Un esempio che unisce questi due mondi sono gli occhiali che indosso, un prodotto in legno e alluminio, opera di un falegname che apparteneva al mondo dei terzisti di sedie in Friuli. Nel 2008, in piena crisi, Promosedia mi invitò a fare una conferenza in un convegno a Udine. Si dibatteva come uscire dalla crisi produttiva del comparto sedia, che in quegli anni ha praticamente decimato un'intera area produttiva. Nella sala c’era un pubblico di imprenditori; al termine della conferenza sono stato avvicinato da uno di loro. Siamo diventati amici, abbiamo lavorato insieme per creare un oggetto da produrre con un materiale da lui brevettato: un accoppiato di alluminio e legno.
Da questo sodalizio è nato un marchio, W-Eye, una collezione di occhiali sofisticati e di altissima qualità, prodotti artigianalmente con passione, unitamente a tecnologie 3D e software molto complessi.
G.D.P.: Quali caratteristiche hanno?
M.R.: Sono occhiali leggerissimi e al contempo resistenti. Si adattano facilmente a qualsiasi viso, divenendo anche molto confortevoli. In più hanno una qualità estetica fuori dal comune. Quando ho visto per la prima volta un modello realizzato in questo strano sandwich di legno e alluminio ne ho subito intuito il potenziale. Così abbiamo creato il brand W-Eye, abbiamo realizzato diversi modelli che sono cresciuti negli anni.
La cosa più bella è che W-Eye ha creato lavoro in Friuli, in un momento in cui molti terzisti hanno chiuso o delocalizzato. Nel 2012, anche per questa ragione, siamo stati premiati dalla Presidenza della Repubblica con il Premio dei Premi, un riconoscimento dato alle aziende e ai designer innovativi.
G.D.P.: A proposito di premi, hai vinto due Compassi d’oro: il primo giovanissimo a soli 29 anni, il secondo nel 2014.
M.R.: Ho vinto entrambi i Compassi d'oro con Giulio Iacchetti. La cosa che mi sento di dire è che non sono un sediaiolo, né un divanista, o uno che fa lampade. Nel nostro studio progettiamo di tutto e questo ci ha dato sicuramente una competenza molto trasversale. Saper fare di tutto un po’ aiuta non solo noi a essere polivalenti, ma anche le aziende ad essere distintive. Non è questione di essere il più giovane vincitore del Compasso d'oro con la posata Moscardino.
Nel 2000 il Moscardino, in mezzo a sedie, divani e poltrone rappresentava una tipologia completamente innovativa: una piccola posata in materiale biodegradabile, ecosostenibile, progettata per diventare uno strumento da utilizzare durante gli aperitivi e le cene in piedi.
G.D.P.: Dunque, c’era anche l’approccio etico di cui parlavi prima?
M.R.: Oggi etica e sostenibilità sono un dato di fatto, parte integrante del processo progettuale e delle competenze di qualsiasi designer. Allora, nel 2000, il problema cominciava solo a palesarsi. Non esistevano le leggi, non c'erano materiali alternativi e, in ogni caso, l'industria non era pronta.
G.D.P.: Nel senso che sei refrattario al discorso economico?
M.R.: Tutt’altro, penso che ogni prodotto debba avere un suo prezzo, il suo materiale, la sua tecnologia. Per assurdo il Moscardino, nato come oggetto usa e getta, viene invece portato a casa e usato come cucchiaino per il caffè, o per lo zucchero, allungando la vita del prodotto e questo per me è la vittoria del design.
G.D.P.: Lavori sempre a doppio passo per alcune aziende solo come autore per altre come art director, coordinatore?
M.R.: Parlare di art direction è sbagliato, una “milanesità”, perché l’art director dovrebbe chiamarsi creative director.
Io mi ritengo un collaboratore, un consulente, un mentore, per usare una parola fuori moda.
G.D.P.: Quindi possiamo parlare di mentor designer?
M.R.: Mi pare una buona definizione. Una volta mi hanno anche definito “design angel”: qualcuno che facilita un percorso, che rende possibile un'evoluzione.
G.D.P.: Puoi fare qualche esempio oltre a quello di W-Eye?
M.R.: L’azienda Very Wood del gruppo Gervasoni, in Friuli.
G.D.P.: Sempre in Friuli, trascuri un po’ la vicina Brianza?
M.R.: Non ho niente contro l’imprenditoria brianzola, ma la vita e il lavoro mi hanno portato in Friuli. Gente simpatica, voglia di lavorare e sperimentare. Avere a che fare con loro ti aiuta a capire che non lavori per l’azienda, ma con l’azienda. Un piccolo dettaglio che fa la differenza. Very Wood è un brand che fa sedute contract per il mondo hospitality. Io fino ad ora non ho disegnato per loro, ma coinvolgo altri designer: Odo Fioravanti, Michele De Lucchi… Quando sei sicuro di quello che vuoi puoi aprirti agli altri. A me piace condividere sia con le aziende che con i miei colleghi.
G.D.P.: Hai citato solo nomi di designer molto affermati, apri anche ai giovani?
M.R.: Negli anni siamo stati sempre molto aperti ad includere anche designer non ancora blasonati. Abbiamo promosso vari progetti comunitari coinvolgendo sempre giovani. Questo è importante anche per lo studio, nuove teste che si fanno un'esperienza, perché senza non puoi fare il designer. È la stessa cosa che ho fatto io quando ero giovane, con Carlo Pagani. Andai da lui perché volevo esperienza, non soldi. Volevo imparare. Ora abbiamo appena finito un progetto con un’azienda spagnola, Fiora, che produce piatti doccia con un materiale innovativo. Abbiamo lanciato una call online e tre proposte verranno premiate al Salone del Mobile. Non abbiamo guardato il curriculum, ma i progetti.
G.D.P.: Lavori sia in Italia che all’estero, quali differenze trovi?
M.R.: Per me le relazioni umane sono importanti; ammetto che con le aziende estere, che sono il 20% dei nostri clienti, la distanza crea qualche difficoltà. Ad ogni modo le esperienze più interessanti sono quelle in cui c’è un rapporto diretto con l’imprenditore.
G.D.P.: Questo è più possibile in Italia...
M.R.: Sì, a causa della distanza e anche perché si ha a che fare con culture aziendali più strutturate e meno aperte alle possibilità.
Le idee migliori spesso nascono chiacchierando, intorno ad un tavolo. È una cosa molto italiana, che mi piace moltissimo e che vorrei continuare.
Con le aziende straniere il rapporto è molto più preciso, quando ti chiamano sanno già cosa vogliono, arrivano con un programma. Tuttavia ci sono delle eccezioni, come la collaborazione con l’azienda colombiana Ziennte, nata grazie a un mio amico e collega colombiano, Rodrigo Torres, che mi ha presentato al proprietario dell’azienda durante un pranzo e da cui è nata una collezione di arredi molto ampia. A me piace collaborare sia con aziende piccole che grandi come Luxottica per cui disegniamo da anni display per punti vendita. Per QC Terme abbiamo fatto un’operazione culturale, il Portale dell’aQCua, posizionato a più di 2000 metri sopra Courmayeur, raggiungibile solo con gli sci.
Un’iNstallazione perfettamente simbiotica con la natura grazie a un gioco di superfici specchianti. Anche questo è design, design delle emozioni.
G.D.P.: Un altro tuo aspetto da considerare all’interno del tuo lavoro è quello dell’autoproduzione.
M.R.: In anni non sospetti io e Giulio avevamo fatto un brand, Sinequanon, per produrre oggetti senza i quali, ironicamente, non si poteva vivere. Oggetti prodotti con una tecnica molto particolare e inedita ai tempi: la fotoincisione di lastre d’acciaio armonico. Ai tempi “autoproduzione” faceva rima con “disperazione”. Oramai ci sono più designer che aziende, designer pompati dalle scuole, di cui ho anch’io la responsabilità visto che insegno. Tutti questi designer, non riuscendo a lavorare con le aziende, autoproducono, ma spesso senza riuscire a vendere. Ci sono pochi esempi di designer imprenditori: Tom Dixon o Marcel Wanders per citarne alcuni. All’estero è più normale creare un proprio marchio, anche perché ci sono poche aziende. In Italia è diverso, ci sono tante realtà imprenditoriali, oltre che designer. L’Italia è un riferimento non solo per i designer, ma soprattutto per le aziende aperte all’innovazione; è per questo che molti designer stranieri vengono a cercare fortuna da noi.
G.D.P.: Ci parli della partecipazione a DimoreDesign in cui si chiede di inserire il nuovo in un contesto antico?
M.R.: Non ho fatto un’istallazione invasiva, mi sono mimetizzato. Il concetto era quello della caccia al tesoro.
Ho sviluppato il rapporto tra architettura e luogo che ha una storia da raccontare e oggetti nuovi della mia produzione, un dialogo discreto con il passato.
La parola d’ordine era rispetto, nel senso di rispettare il DNA del luogo e di sé stessi. In tutti gli allestimenti che faccio c’è sempre una particolare attenzione al luogo. Per esempio nella Villa Grismondi Finardi il contesto era molto presente, per cui ho portato oggetti che valorizzassero questo concetto di mimetismo, perché secondo me il designer non deve essere un leone che ruggisce. Io mi sento più un camaleonte: entro in sintonia, cerco di prendere il colore del contesto pur preservando la mia identità.
G.D.P.: Puoi fare un esempio di lavoro di questo tipo con qualche a azienda?
M.R.: Mi viene in mente il tavolo HUB disegnato per Fantoni, che ha innescato un processo di collaborazione durato 5 anni, non legato a prodotti da vendere, ma di consapevolezza e identità aziendale. Questo tavolo ha aperto un mercato ancora poco esplorato come quello del co-working, fatto di postazioni collaborative. È un tavolo a baldacchino, dove hai tutto: piano, seduta, luci, prese elettriche, divisori e accessori come porta bottiglie o appendi abiti.
G.D.P.: Tornando a Bergamo e alla bergamasca avete dei progetti in corso?
M.R.: Ho approfittato di questo ritorno a Bergamo per ricontattare l’azienda Pinetti progettando una gruccia in cuoio, per celebrare un rapporto di amicizia e stima con la famiglia Pinetti, con cui avevo fatto nel 2006 la mia prima esperienza di direttore creativo di un’azienda.
G.D.P.: Lavori sia in piccola scala, ma anche per l’arredo urbano, la grande scala?
M.R.: Il sogno di ogni architetto è di progettare grandi edifici, la mia idea è quella di lavorare a tutto tondo nel rispetto della committenza. Ho avuto poche esperienze di interni per privati e quando gli amici mi chiedono un parere solitamente declino, perché mi inibisce molto l’idea di una persona che deve subire le mie scelte progettuali. Ho talmente tanto rispetto per le persone che non voglio essere impositivo.
G.D.P.: Hai anche lavorato nell’arredo urbano?
M.R.: Non proprio, solo una volta con Alpi, un’azienda che produce legno e per la quale ho curato la direzione artistica per quattro anni. Abbiamo valorizzato le panchine di corso Garibaldi a Milano, sostituendo le stecche di legno preesistenti e rovinate con i loro legni colorati. Un’operazione di rispetto. Ogni panchina era diversa e unica. Sono rimaste per due anni e nessuno le ha vandalizzate, a dimostrazione che il bello genera rispetto.
G.D.P.: Hai fatto anche un grande lavoro per Campari.
M.R.: Mi chiamarono nel 2009 proponendomi di celebrare i cento anni del Futurismo al Fuorisalone in zona Tortona. Mi chiesero un portfolio di progetti e risposi che avremmo dovuto discutere su progetti nuovi, non sulla base di quanto avevo già progettato. È nata una collaborazione appassionata e duratura: per cinque anni ho curato progetti e direzione creativa, celebrando i 100 anni del Futurismo, ridisegnato la limited edition degli 80 anni della storica bottiglia di Depero, progettato il Bar Camparitivo in Triennale, le Talent Capsule per le riunioni di giovani creativi, il Caffè del Mago a Rovereto e l’ultimo anno, visto che Campari è un’azienda molto legata al mecenatismo, abbiamo trasformato il mio studio in Gate3, una fucina per sette giovani creativi liberi di coltivare il loro talento per un anno.
G.D.P.: Insomma metodologie altre, per gli altri e con gli altri ben esemplificato nel e dal Manuale di Metodologia progettuale pubblicato da e con Corraini?
M.R.: Questo manuale nasce da un’esigenza personale. Sono stato chiamato dalla NABA a tenere un corso di metodologia, a cui ho risposto dicendo che non avevo una metodologia da insegnare, perché ognuno ha la propria. Hanno insistito tanto che ho deciso di scrivere una sorta di manualetto, che in realtà è un taccuino per gli appunti. L’idea è che alla fine del corso ognuno avesse il proprio taccuino pieno progetti e di esperienze da cui imparare.
BIO
MATTEO RAGNI (1972). Si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano. Nel 2001 ha vinto, con Giulio Iacchetti, il Compasso d’oro ADI per la forchetta/cucchiaio biodegradabile Moscardino, ora nella Collezione Permanente del Design presso il MOMA di New York. Nel 2008 ha vinto il Wallpaper Design Award ’08 per la lampada da tavolo/ferma libri Leti prodotta da Danese. Sempre nel 2008 ha fondato TobeUs, marchio di macchinine in legno prodotte artigianalmente in Italia un marchio che vuole essere un manifesto per un consumo consapevole e che spesso si occupa di workshop e mostre itineranti.
Per la casa editrice Corraini ha pubblicato Camparisoda: l’aperitivo veloce futurista, da Fortunato Depero a Matteo Ragni per celebrare i 100 anni del Futurismo e, nel 2012, il libro Wallpaper Celebration con Jannelli&Volpi. Sempre nel 2012 ha vinto il Premio Nazionale per l’Innovazione Premio dei Premi per il progetto W-eye.
A fine 2013 si è tenuta all’Istituto Italiano di Cultura di Toronto una mostra celebrativa sulla sua attività dal titolo Matteo Ragni: Almost 20 Years of Design. Nel 2014 vince con Giulio Iacchetti il secondo Compasso d’oro ADI per la serie di tombini Montini. Nel 2015 viene invitato in qualità di rappresentante del design italiano all’edizione della Tianjin International Design Week con una personale Matteo Ragni: Design for Better Days, una mostra raccontata fotograficamente da Max Rommel; riceve poi, dal Politecnico di Milano il premio Alumni Polimi Award 2015 (che viene poi, da lui stesso, ri-disegnato). Del 2015 il premio Good Design Award assegnato al sistema HUB disegnato per Fantoni, cui segue Archiproducts Design Award 2016 per HUB BAR - l’isola ufficio per la pausa caffè o per un semplice break, disegnato all’interno della famiglia HUB. Nel 2017 ha pubblicato il Manuale di metodologia progettuale, ed. Corraini ed è stato nominato Ambasciatore del design italiano, per l’Italian Design Day, partecipando alla presentazione a Bogotà, il 2 marzo. All’attività di designer affianca quella di docente in diverse università internazionali, di art director e architetto.
VILLA GRISMONDI FINARDI
Raccontare la storia di Villa Grismondi Finardi significa avventurarsi nella scoperta delle radici più intime del panorama intellettuale italiano dal settecento in avanti. Il Conte Luigi Grismondi, la moglie Paolina Secco Suardo, il matematico Mascheroni e il garibaldino Giovanni Finardi sono solo alcuni degli eccentrici personaggi che hanno frequentato le stanze di questa dimora negli anni. La Villa, rimodulata con il passare dei secoli, si presenta attualmente come un incrocio tra il settecentesco luogo di villeggiatura e l’antica abitazione rurale bergamasca. Il suo androne d’ingresso, dove si conservano affreschi sacri di epoca medievale, l’ampio e ombroso giardino, così come la collocazione della dimora nel quartiere “liberty” della città, la rendono una testimone eccezionale delle epoche passate e un luogo che con la sua quiete è capace di farci immergere in un’atmosfera d’altri tempi.