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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 1

ALESSANDRO MENDINI INCONTRA PALAZZO MORONI

ALESSANDRO MENDINI

UN GRANDE “TAPPETO CON OGGETTI”, POSTO AL CENTRO DEL SALONE DELLA GERUSALEMME LIBERATA, CUORE DI PALAZZO MORONI, PROTEGGE E CONTIENE UN SUGGESTIVO COMPOSITE DI OGGETTI SIMBOLICI, ICONE DELL’ESISTENZA MOLTO LONTANE FRA LORO NELLO SPAZIO E NEL TEMPO, NELLE TEMATICHE, NELLA COLLOCAZIONE DELLA MEMORIA DEL MAESTRO.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Mi pare che nel tuo lavoro, che ha evidenti riferimenti alla storia e alle immagini della pittura moderna, a de Chirico e Savinio, ci sia il concetto di isola come possiamo vedere in molti quadri dei due autori sopracitati. In molte loro opere, infatti, compaiono oggetti accostati a formare “un’isola”. E un’isola dechirichiano-saviniana hai istallato nel salone centrale di Palazzo Moroni.

Alessandro Mendini: Senza tralasciare L’Isola di Utopia di Thomas Moore. Di fatto, l’istallazione che ho fatto a Palazzo Moroni è una zattera, che è un’isola fluttuante.

G.D.P.: Un’isola, provvisoria costruita?

A.M.: Si, per esempio il Teatro del Mondo che Aldo Rossi fece per la Biennale d’Architettura del 1980 di Paolo Portoghesi è un teatro galleggiante, una specie di isola galleggiante dello spettacolo vagante nel mare, e in effetti anche quella ha riferimenti con l’isola di Savinio. Per cui l’isola è un luogo che ha caratteristiche minerali, geologiche e antropologiche precise. Ha le sue regole, è un fatto chiuso, perché se tu, ad esempio, vai all’isola di Hokkaidō in Giappone vedi che ci sono persone che hanno determinate caratteristiche, una determinata fisionomia, visi che, anziché essere giapponesi, sono mongoli, perché c’è quel retaggio. Se vai a Ponza vedi che gli abitanti hanno un retaggio greco, oltre che napoletano. Per cui ogni isola è un luogo chiuso, quindi anche i giochi dentro l’architettura e il design sono dei luoghi parzialmente chiusi nelle loro regole. Per esempio, quella che tu chiami isola, io la chiamo prigione. Per fare un altro esempio, l’opera-stanza, che ho fatto in Triennale per la mostra curata da Beppe Finessi, l’ho chiamata Le mie prigioni, nel senso che mi sono autocostruito un mondo di regole che mi chiude in uno stile e in una mentalità dalla quale è poi difficile uscire. Sono sistemi di chiusura che determinano degli arcipelaghi mentali, dove ognuno ha un suo carattere differente. Tuttavia, essendo un arcipelago, c’è una certa osmosi, in cui l’acqua che collega tutto è la stessa, dove le isole sono delle individualità. Per quanto riguarda me c’è questo senso della cosa che viene presa da una corrente, facendola scivolare e non sai mai dove ti porti.

G.D.P.: E che c’entrano de Chirico e Savinio?

A.M.: Secondo me le isole di Savinio sono ferme, tutto il fenomeno architettonico-arredativo di de Chirico è statico, stabile. È il sole che si muove cambiando le ombre, ma il suo scenario è fisso. Loro mi interessano, perché fanno parte del mio subconscio. Sono autori che inducono a una lettura psicanalitica di te stesso. L’arte di de Chirico è come quella di Gillo Dorfles che serve per fare l’analisi di sé stesso, mentre de Chirico serve agli altri perché analizzino il proprio interno.

G.D.P.: Dunque come entrano nel tuo progettare?

A.M.: Nel mio progetto c’è sempre una parte ludica e una parte tragica, è come la commedia dell’arte. I miei sono oggetti che si muovono su una specie di palcoscenico, luogo sopraelevato in cui i personaggi si romanzano fra di loro. È una storia un po’ da burattini, anche i giocattoli sopra l’isola di Savinio sono un po’ dei personaggi. Poi c’è anche un retaggio nel fatto che la prima volta che ho pensato come progettista, architetto è stato tramite l’espressionismo. Mi sono occupato di Rudolf Steiner con i due Goetheanum, quello di legno che è bruciato, e quello di cemento che c’è ancora. La loro forma è antropomorfa, una sorta di bastimento a forma di teschio.

G.D.P.: In che modo te ne sei occupato?

A.M.: Quando ero studente avevo fatto nel mio studio una mostra su Rudolf Steiner e l’antroposofia. Era stata la mia tesi per il corso di caratteri stilistici e Bruno Zevi me l’aveva pubblicata in due puntate sulla sua rivista L’Architettura. Poi da lì sono passato a Gaudì.

G.D.P.: Continuando per l’architettura antropomorfa, antimodernista?

A.M.: Esatto, poi mi sono occupato del Liberty e in seguito di Erich Mendelsohn, esponendo i suoi disegni fatti in trincea, schizzi di architettura incredibili. Disegnini di taccuino da trincea che mi portò come reliquie sua moglie, una signora elegantissima, Mendelsohn era morto.

G.D.P.: Quelli simili al Goetheanum, come l’Einsteinturm, sempre architetture rotonde, antropomorfizzate?

A.M.:Si, quelli. Disegni fantastici di cose enormi schizzati su piccoli taccuini. Allora, questo senso di un’architettura più che spaziale psichica mi ha condizionato da sempre. Collegaci poi il fatto di aver vissuto nella casa piena di quadri dei miei zii Boschi-Di Stefano, dove ho preso il senso del colore, della forma pitturata e il quadro è fatto. Per cui, quando progetto una facciata, faccio sempre la simulazione che sia una grande pittura. Di solito un oggetto lo vedo sotto specie pittorica.

Goetheanum

G.D.P.: Anche se poi è un’opera di design, o di architettura.

A.M.: Si.

G.D.P.: Per questo ho iniziato con dei riferimenti pittorici.

A.M.: Chiaramente in tutto questo c’entra anche Depero.

G.D.P.: A cui ti accomuna anche l’interdisciplinarietà di entrambi?

A.M.: Si, se non c’era Depero come riferimento Alchimia non sarebbe esistita nel modo in cui è esistita. L’altro aspetto della sua esistenza lo deve, come anche Memphis, al laminato plastico. Il laminato plastico è il materiale più agnostico che esista, perché privo di immagine e dunque suscettibile di qualsiasi immagine che ha quindi il massimo della disponibilità.

G.D.P.: Un terreno su cui vi ha seguito la Abet Laminati. Comunque voi avete dato a esso una superficie di pittura frammentata, puntinista in qualche modo. Allora mi preme sapere se ciò avviene prima o dopo la tua Poltrona Proust?

A.M.: La Poltrona Proust è del 1978, mentre la collezione del laminato plastico fatta da Alchimia del 1980. Comunque sono due cose molto ravvicinate

G.D.P.: Prima parlavi di personaggi, perché mi pare che tu consideri i tuoi oggetti come personaggi di una storia, di una narrazione, cose che, oltre ad avere, diciamo così, un uso primario, come ad esempio, un bicchiere per bere, una sedia per sedersi, hanno una dimensione, una funzione di comunicazione, ti raccontano qualcosa…

A.M.: Essendo un professionista, se faccio un oggetto esso deve funzionare, però in molti casi la funzione, rispetto all’intero oggetto, è una piccola cosa. Per esempio, nel caso del vaso, ne ho fatti tanti, la funzione puoi dimenticartela e allora faccio qualcosa che è più una scultura. Ma anche nell’oggetto funzionale, il mio tentativo è quello di far prevalere una comunicazione visiva, estetica. Mi interessa esprimere dei messaggi poetici, spirituali, simbolici, critici, iconici. Trasmettere comunicazione, insomma.

IL MIO TENTATIVO È QUELLO DI FAR PREVALERE UNA COMUNICAZIONE VISIVA, ESTETICA. MI INTERESSA ESPRIMERE DEI MESSAGGI POETICI, SPIRITUALI, SIMBOLICI, CRITICI, ICONICI. TRASMETTERE COMUNICAZIONE, INSOMMA.

G.D.P.: Tornando alla commedia dell’arte che hai citato prima, come anche alla parola palcoscenico, stage, personaggio vedo che in te ricorre l’interesse per la teatralizzazione che si lega anche alla tua ultima risposta relativa alla comunicazione. Ora, commedia per commedia, possiamo dire che il tuo modo di progettare è una sorta di “progetto mascherato”, mascherato soprattutto da Arlecchino.

A.M.: Perché mi interessa spesso lavorare sull’esistente e cambiargli i connotati, dandogli un’energia differente. Per esempio la Poltrona Proust è un ready made tra un pezzo di prato dipinto da Paul Signac e una falsa poltrona del settecento. È un patchwork, e l’abito di Arlecchino è un abito elegantissimo, carico di energia ottenuto con dei triangoli di stracci che vengono cuciti, rammendati l’un l’altro. Per cui il rammendo per me è un metodo di progettazione efficace che significa anche lavorare evitando lo spreco. Anche Renzo Piano parla di rammendo delle periferie, per cui il rammendo è un metodo.

G.D.P.: Poi è anche una palette pittorica, è l’unica maschera-quadro-dipinto se vogliamo. E non a caso è una maschera che, oltre ad interessare autori teatrali come Goldoni, o Giorgio Strehler, ha interessato artisti, Picasso per tutti. Ma continuando and andare avanti nel nostro discorso, oltre che di isola, all’inizio hai detto che l’istallazione che hai fatto a Palazzo Moroni, che poi è anche un compendio miniaturizzato del tuo lavoro, non è proprio un’isola, ma una zattera.

A.M.: Nella storia della pittura dell’ottocento ci sono molti quadri con zattere, Géricault per primo. Ci sono persone che naufragano e poi anche il fotografo LaChapelle ha fatto una foto tableaux vivant riferito a quella di Géricault. La zattera significa che c’è un flusso della vita che ti trascina e tu non lo comandi. Pertanto i tuoi punti fissi sono mobili in una situazione che non governi. Una situazione di dramma permanente, per questo avevo chiamata l’istallazione in questione Design alla deriva. Se pensi alla moralità del progetto, noi che lavoriamo in una situazione di grande privilegio, cerchiamo di fare delle cose che abbiano positività nei confronti di chi le deve usare: una buona architettura, un buon design, però di fronte a noi abbiamo un mondo violento, cattivo, le persone sono cattive, la vita è cattiva, tutto è guerra, violenza, anche lì c’è questo senso di vivere in un labirinto e tu ci sei dentro e non sei in grado di difenderti. Il labirinto e la foresta oscura dove vedi la luce in fondo che non riesci o sai come raggiungere è anche una sorta di zattera e la luce in fondo è l’utopia. Per questo mi interessa l’utopia, perché è un modo di comportarsi che sa di non arrivare, ma che cerca di raggiungere una meta importante. Poi c’è la distinzione tra i fini che si può porre un progettista architetto-designer e quelli dell’artista, che al di là dei condizionamenti, o meno, è una persona infinitamente più libera. Tu che ne dici?

G.D.P.: Dico che come architetto, designer ti sei preso e continui a prendere molte libertà e in molti casi anche più di molti artisti o cosiddetti tali.

A.M.: Tempo fa Germano Celant ha detto: “Bravissimo Mendini, peccato che non faccia l’artista”.

G.D.P.: Ma io ti ho sempre considerato un artista che si esprime attraverso mezzi dell’architettura del design, della scrittura. In questo senso erede di Depero e Savinio e più alla lontana dell’antica tradizione degli artisti multidisciplinari rinascimentali. Infatti le mostre DimoreDesign mirano anche a questo, in quanto le dimore storiche sono fatte spesso da opere di artisti che toccavano varie discipline, che erano contemporaneamente pittori, architetti e che hanno realizzato luoghi straordinari all’interno del quale tu hai fatto un’installazione di tuoi oggetti-opere che nell’insieme hai considerato come una zattera a cui hai dato il titolo Design alla deriva, un design relativo, progetto in continuo mutamento.

DESIGN ALLA DERIVA È UN GRANDE TAPPETO, È SEMPRE UN RIFUGIO, UN LUOGO DI PENSIERO, UN’IMMAGINE DI CONVIVIO OPPURE DI ISOLAMENTO...

...è anche una zattera di salvezza, l'arca in un mondo alla deriva. In questo caso protegge e contiene i miei oggetti simbolici, le icone di alcuni momenti importanti della mia esistenza. Opere molto lontane fra loro nello spazio e nel tempo, nelle tematiche, nella loro collocazione nella mia memoria. Questa installazione, questo “tappeto con oggetti” viene accolto e nasce al centro dello straordinario salone di Palazzo Moroni a Bergamo Alta. Una sfida meravigliosa e difficile, un gioco di design quasi perverso.

G.D.P.: Inoltre, al contrario di quasi tutti gli altri autori invitati in questi anni, non hai sparso gli oggetti nelle varie sale, ma li hai, non solo concentrati tutti in una stanza, anche messi tutti su un tappeto al centro della stanza a creare, un’isola, o una zattera.

A.M.: Entrare in colloquio analitico con tutto il palazzo, spargendo oggetti qua e là nelle varie sale mi sembrava dispersivo e disperso, nel senso che, al limite, non ci si sarebbe accorti che una lampada era poggiata su un cassettone e così via. Se avessi sparpagliato gli oggetti era evidente che sarebbe stato molto difficile raggiungere un messaggio, e quindi ho usato l’idea della zattera aiutato dal fatto che proprio in quel momento avevo fatto un tappeto, cosa rara per me. Questo tappeto ha una misura buona per concentrarci sopra una specie di collezione, una sorta di arca di Noè degli oggetti. Ho chiesto di farmi una pedana per sollevare un po’ il tappeto da terra e ci ho messo sopra alcuni oggetti emblematici, alcune icone di quello che faccio anche nelle loro metamorfosi. Per esempio, ho messo una Poltrona Proust, ma miniaturizzata, il prototipo di una lampada di Venini, e poi ho cercato di introdurre i vari materiali che uso: dal legno intarsiato alla ceramica, al vetro soffiato, al mosaico, all’alluminio, cercando di fare una specie di abbecedario dei miei materiali, che vanno da quelli vecchissimi di un mobile fatto con un legno neozelandese di trentasettemila anni a materiali modernissimi come il titanio. Per cui ho miscelato degli oggetti e delle teorie ottenendo un microcosmo su cui poter girare attorno.

G.D.P.: Che, comunque, è un tuo modo non solo di esporre, ma di progettare, una metodologia?

A.M.: Si, una cosa un po’ simile l’ho fatta in un appartamento del Unité d'habitation di Le Corbusier a Marsiglia. Prima di tutto mi sono guardato intorno e sono stato proprio bene dentro questo luogo magico, dove ero invitato dai giovani proprietari. Questo era l’appartamento di proprietà della maestra d’asilo che c’è all’ultimo piano del palazzo. Una signora che ha vissuto tutta la vita lì. Era amica di Le Corbusier. Quando lui andava a Marsiglia andava a dormire da lei, che era anche la sua spia. Gli riferiva dei cambiamenti che facevano gli inquilini tipo: “Quelli lì hanno messo dentro un mobile antico”, “Quegli altri hanno imbiancato i muri tutto di bianco”, perché la gente, una volta dentro, ha personalizzato gli appartamenti tanto da renderli anche kitsch. Lei era l’unica che non ha toccato nulla, il suo appartamento è rimasto come l’aveva progettato Le Corbusier, tant’è che è stato dichiarato dallo Stato francese monumento nazionale, che ha pagato anche il restauro una volta che è stato acquistato dalla coppia di giovani, ma con la clausola che, per un mese all’anno, lo devono rendere accessibile al pubblico. Allora in quel mese ogni anno invitano un architetto a fare qualcosa: una piccola mostra, un intervento all’interno e un anno è toccato a me. Loro hanno i mobili di Charlotte Perriand, due poltrone, un tavolino rotondo che ho lasciato, mettendoci accanto delle micro poltrone, un’abatjour, e ho lavorato dentro il mio tappeto. L’appartamento ha anche delle meravigliose nicchie di un colore blu e verde intensi in cui ho messo dei miei piccoli oggetti.

G.D.P.: Scrivi anche molto, oltre che a progettare, tant’è che recentemente, dopo il primo tomo dei tuoi scritti pubblicati da Skira, ne è uscito un secondo pubblicato da postemedia books, sempre curato da Loredana Parmesani?

A.M.: Tutto è nato dal fatto che ho diretto varie riviste: cinque anni di Casabella, cinque di Modo e sei di Domus. Dirigendo riviste guardavo il progetto come qualcosa che poi dovevo mettere in pagina, un’attività di tipo curatoriale che richiedeva la scrittura, soprattutto editoriali. Scrivo molto lentamente e con molta fatica, limando, concentrando. Però avrebbe potuto essere anche la mia professione. A me sarebbe piaciuto o fare lo scrittore, oppure il pittore da cavalletto.

G.D.P.: Perché hai optato per l’architettura?

A.M.: Perché sono un dispersore delle mie energie.

BIO

ALESSANDRO MENDINI (1931-2019), architetto è nato a Milano. Ha diretto le riviste "Casabella", "Modo" e "Domus". Sul suo lavoro e su quello compiuto con lo studio Alchimia sono uscite monografie in varie lingue. Ha realizzato oggetti, mobili, ambienti, pitture, installazioni, architetture. Ha collaborato con compagnie internazionali ed è stato consulente di varie industrie in Europa e nell'Estremo Oriente, per l'impostazione dei loro problemi di immagine e di design. E' stato membro onorario della Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme, gli è stato attribuito il Compasso d'oro per il design (1979 - 1981 - 2014), l’onorificenza "Chevalier des Arts et des Lettres" in Francia, l’Architectural League di New York e le Laurea Honoris Causa al Politecnico di Milano, all'École Normale Supérieure de Cachan in Francia, all’Accademia di Belle Arti di Wroclaw in Polonia e all’Università KMU- Kookmin University di Seoul in Corea. Nel 2015 è stato insignito del European Prize for Architecture 2014 a Chicago e ha ricevuto l’onorificenza Mestre de Design de la Catalogna a Barcellona in Spagna. E' stato professore onorario alla Accademic Council of Guangzhou Academy of fine Arts in Cina. Suoi lavori si trovano in vari musei e collezioni private. Il suo lavoro, teorico e scritto, oltre che progettuale, si è sviluppato all'incrocio fra arte, design e architettura.

www.ateliermendini.it

PALAZZO MORONI

Il giardino lussureggiante, le ampie sale barocche e la posizione panoramica sulla pianura sono solo alcuni dei tratti che rendono palazzo Moroni un unicum nel panorama bergamasco. L’edificio, risalente alla prima metà del ‘600, venne realizzato su iniziativa del “proto-industriale” serico Antonio Moroni con l’obiettivo di mostrare alla città la ricchezza che raggiunse l’omonima famiglia con l’industria della seta. Non poche furono le difficoltà da superare nella fase di costruzione: venne scavato il colle retrostante, si abbatté il palazzo dirimpettaio e si innalzò l’edificio creando più livelli sovrapposti. Nonostante i vincoli, il risultato ottenuto fu una residenza spettacolare: una dimora sorta dalla forza di volontà e dalla lucida follia del carattere bergamasco che dietro ad ogni impedimento trova la possibilità di superarlo.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. dell'installazione “Design alla Deriva” di Alessandro Mendini a Palazzo Moroni © Ezio Manciucca - Disegni di Alessandro Mendini “Design alla Deriva” e “Sandro vestito da Arlecchino” © Alessandro Mendini - Ph. Goetheanum: Wladyslaw / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) - Ph. Unité d'Habitation de Marseille: michiel1972 / CC (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/deed.it) - Ph. Unité d’Habitation_Salon: SiefkinDR / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0) - Ph. ritratto di Alessandro Mendini © Carlo Lavatori | Editing di Roberta Facheris