Il racconto della pioggia di Aprile
Quel suono battente e regolare gli sembrava una serie di parole. Un sommesso chiacchiericcio che riusciva a decodificare solo lui.
Stava così, in biblioteca, fermo, in ascolto della pioggia leggera.
Non era la prima volta.
Ogni ticchettio riportava alla memoria brani di conversazioni lontane nel tempo; Lan Zhan era giunto alla conclusione che, in qualche modo, i luoghi riuscissero a registrare tutto. Come? ad esempio le nostre parole sono trattenute dal tetto e non fuggono, gli sguardi non vanno oltre le cortine delle finestre e lì rimangono intrappolati per secoli. Persino i movimenti restano impressi nelle pareti, che conservano ologrammi delle nostre esistenze.
Così restava da solo in biblioteca, trascrivendo il linguaggio della pioggia.
Un sorriso minuscolo, si apriva in mezzo al suo dolore.
“Non sei stanco di stare così seduto? Dai, Lan Zhan! Ti prego, basta ricopiare!”
“Zitto, scrivi”
Gli sembrava di rivedere quei due giovani ragazzi che erano stati lui e Wei Ying. Avrebbe desiderato saper dipingere. Perché poteva anche trascrivere le parole che la pioggia gli suggeriva, ma mancavano tutte le buffe espressioni di lui.
Di lui.
La voce, non si può dipingere. E il tono scanzonato? nemmeno. Che colore avrebbe dovuto usare?
Che dolore doveva continuare a usare?
Che silenzio doveva seguitare a tenere?
La pioggia però proseguiva con il racconto e Lan Zhan non sapeva fermarsi, stava in ascolto e trascriveva tutto ciò che la sua memoria riusciva a raccogliere.
A volte fermava la mano, il pennello lontano dal foglio.
Cosa scriveva? Per chi? Per quale motivo?
Sperava che un giorno, forse, avrebbe potuto nuovamente leggere quelle frasi insieme a lui, sorridendo della loro stoltezza giovanile?
Quanta stupidità nel cuore di Hanguang Jun. Non si sarebbe mai detto, vero?
Lui, ancora dritto e in postura impeccabile, nonostante l’umiliazione di una punizione esemplare e anni di isolamento.
Ancora lì, con la sua inutile dignità, chiuso in mezzo ai libri, intento ad ascoltare una pioggia che pioggia non è: ma parole dette nel tempo.
Quanta pena doveva fare, questo Hanguang Jun? Si chiedeva, chino sul foglio.
Quanto riderebbe, Lui, nel vederlo così.
A ricordare parole probabilmente molto distanti dal vero.
E perché poi? Per non perdere nemmeno un istante di una vita che non aveva avuto nessun riguardo nel proteggere se stessa. Che si era disfatta dei suoi anni migliori. Una vita che era preziosa solo per lui, probabilmente, più che per lo stesso proprietario.
La vita di qualcuno a cui si sentiva legato in maniera dolorosa. A senso unico.
Per niente.
La pioggia continuava il suo mormorio.
Lui trascriveva parole.
Fuori alcune gocce stavano scendendo lentamente dai fiori della magnolia. Piccole gocce tonde. Anche loro seguivano il percorso che il mondo gli stava chiedendo. E lente seguivano la curva dei petali, poi acceleravano diventando piene e pesanti, sino a staccarsi dal fiore.
Le stava osservando attentamente Lan Zhan, con invidia.
Persino la pioggia, persino quella. Faceva la sua corsa sui fiori, accarezzando, abbracciando prima di staccarsi e spegnersi a terra.
Dov’era il suo abbraccio?
Dov’era finito?
Perché a loro era restata solo la caduta finale?
Smise di scrivere.
La pioggia continuava la sua canzone, ininterrottamente. Senza più un significato. Senza raccontare più nulla.
Ora scendeva lungo un fiore di magnolia e più dentro, più dentro… scendeva da un ciglio a una guancia.
Terminando la sua corsa su un foglio, dove cancellava parole.
Il sogno di Lan Wangji
Non riesco ad alzarmi da qui.
Ti ho sognato questa notte. Mi allontanavi, ancora. Di nuovo.
E io non so più perché questo stupido cervello si ostini a pensarti; perché questo cuore è pieno di te.
Perché mi avvolgo nei giorni facendoti coperta, vestito; ingoiando i respiri e il tuo nome.
Nel sogno sfuggivi il mio sguardo.
Parlavi con altri, non con me.
Nel sogno allungavo una mano per chiamarti, per farmi notare.
Tu voltavi il viso.
Cercavo la tua attenzione ad ogni modo.
Ma ero così trasparente.
Così privo di interesse ai tuoi occhi.
Ti ho sognato questa notte. E mi sono sentito come tante altre volte, quando c'eri.
Pieno di un sentimento che non so contenere.
Con sguardi che urlano il tuo nome.
Ma incapace di dirti una sola parola. E come accadeva sempre, non è uscito un solo respiro dalla mia voce, non un suono.
Perché il tuo sguardo era così eloquente.
Quel sorriso che ha sempre aperto strade, cuori, situazioni. Altrui.
Quel tuo cuore brillante, così facile da capire per chiunque, resta precluso a me.
Io che mi metterei in ginocchio per una tua parola.
Io che berrei ogni singolo pensiero che esce dalla tua testa.
Sono sempre l'unico trasparente. Invisibile.
Nel sogno si è ripetuta l'infinita situazione dei tuoi mancati sguardi.
Del mio inutile dolore. Di questa testa ostinata che sa solo attendere.
Anche se non ha più nulla da aspettare, nemmeno in un sogno. In cui tu non ti volti, non mi cerchi e forse... forse hai anche dimenticato il mio nome.
E allora ti prego, svegliati, svegliati ancora, anche tu.
E ascoltami. Sono Lan Zhan, Lan Wangji, Hanguang Jun. La persona che non sa dire mai la cosa giusta, con il cuore.
La persona che non credi capace.
La persona che raggela chi ha intorno. Ma sono sempre io, quello che ha un unico fuoco e quel fuoco porta il tuo nome.
Quindi, ti prego, svegliati e guardami.
Perché nessun sogno doloroso, nessuna realtà, niente. Niente mi farà mai cambiare idea.
Sono il tuo punto fermo.
Anche se per te resto e resterò invisibile.
Non mi muovo.
E ti aspetto.
(Se)
Se adesso mi sposto verso la finestra e quella nuvola non oltrepassa il ramo della magnolia, allora. Allora significa che sei tu.
Se riesco a finire le pennellate veloci di questa scritta entro la fine dell’incenso, che sta bruciando verso est, allora... allora significa che tu, e presto, ritorni.
Se quando uscirò sulla veranda vedrò un rapido volo di rondini, allora sarai tu, sarà il tuo abbraccio trasparente.
Se questa cicatrice avrà smesso di essere dolorante entro la luce della primavera, allora tu. Proprio tu risponderai ai miei richiami.
Se lì fuori in giardino, quel nudo ramo di rose riesce a regalare al novembre un bocciolo, allora. Allora sarà un tuo pensiero arrivato sino a me.
Ma tu.
Tu forse sei qui, già tornato a riempire i giorni del mondo e solo io non ti riconosco.
Solo io non so il tuo nome.
Perché la verità, forse, è che posso mettere in fila tutti i "se" e le scommesse di questa terra.
Ma se tu non vorrai farmi sapere chi sei.
Se fuggirai, ancora e ancora.
Se il mio nome ti è odioso oggi, come lo è stato spesso in passato.
Allora ogni nuvola, ogni volo di rondine, ogni singolo crepuscolo e ogni rosa... potranno sbocciare, levarsi, correre.
Senza che il mio battito possa riprendere il suo corso.
Seguiterò a vivere, vuoto.
Di parole che non usciranno dalla bocca.
Vuoto di te.
Lan Cìan©
ll corvo
Lan Wanji aveva presa l’abitudine di uscire, certi pomeriggi.
L’aria era leggera, spostava appena i suoi capelli.
Immaginava carezze mai ricevute.
Si sedeva sull’erba, un libro fra le mani, ma la lettura era solo un pretesto. Semplicemente, si era ricavato uno spazio per pensare, senza avere l’ingombrante aleggiare di doveri, sguardi e presenze dei Meandri.
Si allontanava quel poco, per allargare il respiro.
Si permetteva di sedere a terra, seppure molto composto.
Da quel punto lo sguardo si allargava su una vallata ampia, un picco irregolare sporgeva alla sua sinistra, avvolto da uno strato di bruma, eternamente. In alcuni orari era addirittura invisibile.
Restava in silenzio, senza fare nessun rumore, tentando di ascoltare impercettibili voci: avrebbe mai sentito quella che attendeva? Cercava risposte dai suoni, portati dal vento; inviava le sue domande lontano, trasportate lungo i fili dell’aria.
Attendendo.
Lo faceva da così tanto, da anni.
Qualche volta, era già capitato, su un ramo della quercia lì accanto si posava un corvo.
Non faceva niente, neanche lui.
Si osservavano.
Ormai Lan Wanji aveva preso l’abitudine di chiedergli come stesse.
Due piccoli occhi rossi, pungenti, lo fissavano; la testa nera si piegava su un lato, sembrava rispondere alle richieste, educatamente.
Restavano insieme per ore, immersi nei reciproci silenzi.
Poi Lan Zhan si alzava, spolverava l’abito con le mani; guardava ancora una volta il corvo mentre andava via…
“Wei Ying? Aspettami”
Lo salutava, sino alla volta successiva.
Questa volta
L’ho guardato mentre cadeva in un turbinio di polvere.
Eppure è lui.
Pochi secondi prima ho tenuto stretto il suo polso, per fermarlo.
Ha smesso di suonare quel dizi improvvisato, per pochi secondi.
Lo so che è lui.
Anche se non avessi più orecchie per ascoltare, mi sarebbero comunque bastati i suoi occhi. Non importa se nascosti.
Lui è sempre lui. Per quante vite possa avere e per quante volte possa allontanarsi da me.
Per pochi istanti ho bloccato il suo gesto e le sue mani hanno fermato le mie.
Le ho sentite soltanto, perché non sapevo fare altro che guardare oltre la sua maschera.
Ma sapevo che si trattava di lui.
Ho sentito le pulsazioni, forti, del suo polso e il mio sangue ha iniziato a circolare alla velocità del suo. Anche il mio corpo ricorda il suo nome.
Tante volte ho immaginata questa scena ma non è la stessa cosa: non accade ciò che ci aspettiamo, mai. Credevo che mi si sarebbe fermato il respiro, che avrei provato un nodo dentro, così doloroso…
Nulla di tutto questo.
Il mio sguardo è sceso dentro di lui in profondità tali da giungere al suo passato e prima, prima ancora; annodando occhi a occhi. Incredibilmente, anziché smettere di respirare, ho ricominciato.
Ho sentito il petto allargarsi e vivere.
Ho provato un centro caldo, dentro di me, fermo da centinaia d’anni. Forse da sempre.
Così che, quando è caduto indietro, colpito, quando è stato a terra…
Non ho avuto dubbi.
Questa volta non mi sono posto problemi, questioni, incertezze. Le mie braccia hanno retto il peso e l’ho alzato, piano, da terra.
Volevo sentire tutta la tridimensionalità della sua presenza. Ho lasciato che, ancora parzialmente immemore, allacciasse le braccia al mio collo e non ho permesso che nessun altro lo portasse via.
Sentivo il suo capo appoggiato al collo. Il petto contro il mio.
Ho stretto più che ho potuto.
Questa volta non gli ho chiesto se voleva tornare con me a Gusu.
Questa volta l’ho tenuto dentro il mio abbraccio.
Questa volta non ho avute indecisioni.
Questa volta resta con me.
Fuori da me
C'è il vento qui fuori, e c'è una lama di luce che albeggia.
Ma non so a cosa serva, non so a cosa serva il Mondo, adesso.
Un mondo che non ti contiene che non ha il tuo sguardo ad osservare il tempo ed è vuota cosa che scorre,
vuota di te.
Ed io che non respiro, se non sentendo schegge di vetro.
Non mi rispondi, non senti il mio richiamo.
Tu che mi inseguivi con lo sguardo, io che mangiavo le tue parole, e la tua bocca.
Non so a cosa serva il Mondo, adesso.
Se non racchiude il suono del tuo cuore.
Un mondo che non ti contiene,
è vuoto anche di me.
Tu sei
La cosa più difficile del dolore è rifuggirlo. Anche quando la vita ormai è piana, anche quando respiri leggero. Lui si annida, resiste, riverbera dalle fibre ai muscoli. Diventa la tua struttura ossea. Tu sei dolore.
La cosa più cattiva del dolore è che non riesci più a farne a meno. Perché ti ha fatto da segnale, da protezione, ti ha tenuto nella sua morsa così a lungo...
Tutto quello che conservi di Lui, è il dolore che provi.
L'unica cosa che non vuoi lasciar andare.
L'unica cosa che puoi chiamare ancora con il suo nome.
La cosa più persistente del dolore è quel cerchio, e come una pietra buttata in acqua lascia le sue tracce a lungo, anello dopo anello si espande... il dolore lo ascolti, lo provi, lo senti a distanza; da una vita all'altra, a volte.
La cosa più triste del dolore è che ora, ora che ci sei di nuovo, io non provo più nulla che non contenga anche dolore.
Perché avevo iniziato a chiamarlo come te.
Perché non potevo fare a meno del tuo cuore; e il mio, adesso, si chiama Dolore.
Quindi.
Anche se è fragile e rotto, Tu, ti prego, aggiustami il cuore.
Sii la mano che lo trattiene, allontanando questo nero.
Perché adesso, io, ti chiamo con un nome nuovo.
Tu, ora, per me.
Sei Mio.
Lan Cìan©
Credits:
La foto è di MMC. Che non ringrazio.