Tratto da “ACCORDAGES. La nouvelle revue des praticiens de la méthode G.D.S.” - N°6 1° semestre 2017
Testo di Jozef Leysen, Dottore in psicanalisi (Università di Paris 8) e uomo di teatro (diplomato al Conservatorio Reale di Bruxelles)
Traduzione : Fabio Colonnello
Nel campo della scultura, la struttura di Tensegrità più conosciuta è probabilmente la Needle Tower di Kenneth Snelson. Essa ha stupito e attirato l’occhio, i sogni e i pensieri di molti. Questo è anche stato il mio caso, anche se conosco quest’opera solo tramite fotografie. Rivelo ciò che mi ha sbalordito: la leggerezza, la sobrietà, l’economia dei mezzi e degli elementi, l’equilibrio e la complementarità delle forze di compressione e tensione in gioco, l’adattabilità, la possibilità di continuare e reinventare, come all’infinito, la struttura già iniziata. Senza cercare di stabilire qui i principi tecnici e teorici della tensegrità1, partiamo dalle qualità rilevate subito sopra per introdurre la seguente domanda: in che cosa i principi della tensegrità possono orientare il pensiero e la pratica terapeutica relativa alla strutturazione soggettiva? Per strutturazione soggettiva intendo il processo vivente tramite il quale un soggetto umano arriva a capitare un po’ meglio nel suo proprio linguaggio, a esistere in accordo con il desiderio che lo richiama, ad autorizzarsi questo desiderio, al comportamento quotidiano in una maniera che sia buona per lui e accettabile per gli altri.
TENSEGRITÀ E STRUTTURA TERAPEUTICA
La terapeutica di questo processo soggettivante mette in gioco svariate strutture. Per struttura si intende articolazione di più elementi, possibilmente messi in relazione in un rapporto di tensione e di interdipendenza. Quali strutture sono qui invitate ad articolarsi?
Dapprima, c’è la relazione terapeutica in quanto struttura che articola, a prima vista, tre elementi: un terapeuta, un soggetto che soffre che possiamo chiamare paziente, un oggetto. La loro articolazione sempre semplice, facile, persino idiota. Non è tuttavia così limpida, in particolare a causa della complessità degli elementi. Prendiamo l’oggetto. Intendiamo per oggetto questo perché terapeuta e paziente sono là, legati in una relazione. Perché ci sono forse un dolore lombare, una distorsione, una polmonite, una fobia, una difficoltà di coppia, un’angina a ripetizione, e via di seguito. Così formulato, l’oggetto della richiesta terapeutica è chiaro. Eppure, al di là delle problematiche proprie all’eziopatogenesi (bisogna occuparsi del fenomeno sintomatico e/o della sua causa?), ci sono dei problemi di discordanza e conflittualità possibili fra oggetto della richiesta e oggetto del desiderio, e quest’ultimo si impone spesso all’insaputa dei soggetti legati in seno alla struttura terapeutica. Il sintomo, come “oggetto” di lavoro, può essere il luogo dove si manifesta il desiderio: il desiderio di un’istanza che esige questo sintomo, come si esige una tassa, come qualcosa di dovuto, un debito da pagare, il sigillo di un nodo, di un patto, come una garanzia di esistenza, come il luogo di un piacere che non può trovare un percorso vitale che in una forma di straripamento o di escrescenza organica e sintomatica. Da quel momento, il detto oggetto divento il frutto di un annodamento singolare, indissociabile dal dramma intimo di cui è testimone e che progredisce, spesso alla meno peggio, secondo la maniera in cui questo dramma è accolto. Il soggetto paziente è il portatore di questo dramma, con questa inconsistenza di chi se ne vuole allo stesso tempo liberare ma anche che ci tiene come alla pupilla dei suoi occhi. Di conseguenza, nella struttura terapeutica, la sua posizione sofferente e piena di desiderio non sarà né una né univoca. Il soggetto terapeuta accoglie questo portatore e il suo oggetto di divulgazione, ma non può accontentarsi di essere il rigoroso meccanico, neanche se è un meccanico eccellente: l’oggetto divulgato si apre o si ritrae, si indurisce o si ammorbidisce, secondo le risonanze trasferenziali che si creano tra i due soggetti in gioco. In questo gioco, dove il mostrare-nascondere è opportuno, dove posizionamenti, posture, imposture, entrate, uscite, presenze, assenze, compongono un balletto singolare, il terapeuta torna spesso davanti all’evidenza dei nodi e delle sorprese della sua propria struttura soggettiva, con ciò che arriva, in modo felice, conflittuale, sconosciuto, sotto forma di nuovi avvenimenti sintomatici, attesi oppure no. Noi chiamiamo questo avatar di ciò che è al lavoro o di ciò che ristagna al suo fianco, con le problematiche immaginarie e simboliche che cercano una strada tra sviamenti e avanzamenti.
Tutto questo è sufficientemente complesso per poter avanzare una constatazione: non ci sono che tre elementi in gioco nella struttura terapeutica. C’è un campo di elementi il cui computo è aperto: le posizioni e posture del soggetto che soffre, i suoi oggetti, le posizioni e posture del soggetto terapeuta, i soggetti di lei o di lui. Questo insieme aperto di elementi è messo in relazione da giochi di tensione intra-soggettivi relativi ciascun partecipante, a cui si aggiungono i giochi di tensione inter-soggettivi della relazione terapeutica, in cui la fissità, la fertilità, la rigidità, la leggerezza dipendono dal movimento trasferenziale propri di questa relazione, tanto sui versanti simbolici, immaginari e organici.
TENSEGRITÀ E SOGGETTIVITÀ: VERSO UN EQUIPAGGIAMENTO PSICANALITICO APERTO
La tensegrità può orientare fruttuosamente il lavoro su un tale gioco di annodamento? Ancora occorre vederci chiaro e potersi attrezzare correttamente rispetto al proprio compito. Una buona pratica passa spesso attraverso dei buoni strumenti, semplici e affidabili. Faccio volentieri riferimento agli strumenti che ha forgiato Jaques Lacan (1901-1981), in particolare allo schema L, che è stato esposto sotto due forme (figg. 1 e 2).
FIg. 2 Schema L di Jaques Lacan (versione 2)
Riposto qui la versione tratta da “Une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose” (Una domanda preliminare a tutti i trattamenti possibili della psicosi). Lo schema è esplicitato come segue:
« […] la condizione del soggetto (psicosi o nevrosi) dipende da ciò che si svolge nell’Altro (A). Ciò che ci si articola è come un discorso (l’inconscio è il discorso dell’Altro), di cui Freud ha cercato di definire innanzitutto la sintassi per i pezzi che ci giungono in momenti privilegiati, sogni, lapsus, battute di spirito. A questo discorso, come il soggetto sarebbe interessato se non fosse il beneficiario? Lo è, in effetti, in quanto tirato ai quattro lati dello schema, cioè S, la sua esistenza ineffabile e stupida, a, i suoi oggetti, a’, il suo io, cioè ciò che si riflette della sua forma in questi oggetti, e A il luogo dove si può porre per lui la questione della sua esistenza »2.
Non intraprenderò qui un lungo commento del testo a questo proposito, che è più chiaro di quanto si pensi. Chiedo semplicemente al lettore di visualizzare e trattenere lo schema L e di accettare un uso intra-soggettivo e inter-soggettivo di questo attrezzo. Per uso intra-soggettivo intendiamo un uso applicato all’intimità di un soggetto, in senso etimologico: intimus ci rinvia a ciò che è interiore, alla maniera in cui l’intimo è strutturato dai drammi, i discorsi, le credenze, le immagini, gli oggetti, gli affetti, le rappresentazioni che lo abitano e che configurano questo intimo in maniera singolare a ciascun essere umano, in quanto egli è un essere parlante e un essere parlato. Lacan lo qualificava volentieri come “parlêtre”3. Per uso inter-soggettivo intendiamo un uso applicato alla maniera in cui il soggetto allaccia la sua relazione agli altri e al mondo, con la necessità di trovarci uno spazio animato e mutevole, grazie ad assise narcisistiche e appoggi simbolici che si presentano, o no, a lui. Se schematizziamo, questo viene a creare una struttura che articola minimo tre schemi L: il primo (in arancione) è intra-soggettivo e concerne il soggetto paziente; il secondo (in giallo) è intra-soggettivo e concerne il terapeuta; il terzo (in verde), da situarsi in mezzo ai primi due, è inter-soggettivo: logicamente, nel posto simbolico A siede il terapeuta, poiché da lui può provenire un discorso che risponde alla domanda del soggetto sofferente; nel posto S siede il soggetto che soffre e desidera, mentre a e a’ saranno occupati dall’uno o dall’altro dei partecipanti secondo i bisogni narcisistici, immaginari , speculari e oggettuali della relazione terapeutica (fig. 3).
TENSEGRITÀ E TRAIETTORIA SOGGETTIVA: UN OMAGGIO POSTUMO ALL’ATTORE-BAMBINO CHRISTIAN VRANKEN
Chiariamo questi usi e le loro poste in gioco tramite un’applicazione concreta. Per fare questo mi auguro di rivolgere la mia attenzione al percorso di un bambino che ho scoperto durante prospezioni artistiche portate avanti con Alice Tahon e Franck Laisné, attori venti fuori dall’ESACT di Liegi in
Belgio. Preciso che lo spirito del mio studio è orientato da un’etica vicino sia al senso etimologico che al termine clinico: clinicus, allettato, relativo al letto del malato. Non cerco di fare una sorta di zoologia umana divertita e ironica su questo bambino, diventato uomo e deceduto. Certo di rendergli un omaggio postumo con questo lavoro. Il bambino si chiama Christian Vranken, nato a Haccourt sabato 17 ottobre 19594. Haccourt è un villaggio situato nella periferia di Liegi, villaggio che presenta un’attrattiva per il fatto che è conosciuto per le sue “macrales” (streghe in dialetto vallone), che popolano in maniera inquietante la storia dei luoghi. Se torno a riferirmi allo schema L, c’è qui un discorso da fare. Un altro particolare, che determina ovvero surdetermina il posto simbolico di ciascun abitante del villaggio di Haccourt. Detto altrimenti, ciascun soggetto (S) è portato a situare la sua realtà (l’Altro come struttura rappresentazionale) per rapporto alla credenza o non anche alla stregoneria. Nel 1971, la RTB (Radio Télévision Belge, diventata in seguito RTBF) condotto un lavoro documentario sulla questione. Il giornalista Alexandre Keresztessy ha interrogato i bambini di Haccourt, particolarmente di aiuto alla domanda “Esistono ancora le macrales, le streghe nel villaggio?”. Rivolgiamo la nostra attenzione alla maniera in cui il bambino Christina, il quale allora ha 11 o 12 anni, manifesta il suo interesse per questa domanda. A questa punto dell’articolo, è indispensabile che il lettore visioni l’estratto dal documentario – diffuso dalla televisione belga il 28 marzo 1972 – dove il bambino espone la sua risposta.
POSIZIONAMENTO INTERSOGGETTIVO E POSTURA IMMAGINARIA
Il giornalista, come rappresentante dell’Altro (qui, nello schema L, A = il discorso sociale e mediatico), pone al gruppo di bambini (nello schema L, S = i bambini nel momento in cui si mettono a esistere attraverso e con l’aiuto dei significanti che li rappresentano) la domanda. Osserviamo che i bambini che parlano per primi beneficiano dei significanti che li autorizzano “naturalmente” a prendere la parola: significanti corporei (la grande corporatura, il viso intelligente e che si presenta bene); significanti degli abiti (il bell’impermeabile del secondo bambini, che gli dona un che da signore); probabili significanti scolastici che già ordinano i soggetti (S) nell’ordine dell’Altro (A = il discorso scolastico: tu sei il primo, il diciassettesimo, l’ultimo, tu sei “stupido”, tu sei “intelligente”). Il bambino Christian non trova questo posto dicentesi “naturale”. Deve provocarlo e costruirlo, deve prodigarsi, da cui il cambiamento prossemico che egli opera in seno al gruppo, per assumere una posizione centrale. Si impegna in questo posto con l’aiuto di una postura immaginaria: quella di un personaggio allo stesso tempo clownesco, professorale e politico. Questo insediamento immaginario dà una base narcisista (a’ nello schema L): il bambino si mette a vivere da allora con un’energia debordante. La precarietà del suo essere sull’asse simbolica (A ---- S) è ampiamente compensata dal suo successo sull’asse immaginaria (a’ ---- a). Quando passa per un personaggio pittoresco, diventa oggetto di interesse e di piacere, oggetto di seduzione nello sguardo dell’Altro (A = la videocamera e l’équipe della televisione), oggetto di rivalità e di complicità nello sguardo dei suoi simili (a’ + a+a’+… : tante piccole istanze narcisiste quanti sono i bambini). Nel reportage, si sente che egli è conosciuto, atteso, e desiderato in quella posizione (a nello schema L). Nella strutturazione intersoggettiva, a Christian torna il posto oggettuale e immaginario di colui che fa divertire. In sé, non è un problema, poiché il bambino è estremamente talentuoso, tanto come attore organico che come clown oratore, perché vi sembra felice. La preoccupazione viene dal clinico austero e prudente, che si domanda: sì, ma a quale prezzo?
POSTURA E BIOMECCANICA
Dal punto di vista dell’equilibrio posturale, l’occhio attrezzato da una semiologia GDS non mancherà di osservare svariati elementi: la tendenza della testa a decentrarsi in avanti (anteposizione della massa cefalica in rapporto alla massa toracica e pelvica), la rottura della lordosi cervicale con un probabile effetto di schiacciamento delle prime vertebre e un effetto di compressione, la tensione imposta al torace e il movimento all’indietro della cinta scapolare, al contrario del senso rotatorio fisiologico delle spalle. Il bacino è poco visibile a causa della scelta di inquadratura, ma è molto probabile che subisca un’inversione, con una tendenza a portare le membra inferiori in rotazione esterna, fino a dei piedi a papera. L’approccio GDS considererà questi fenomeni posturali come risultanti dalla pulsione psicocomportamentale del bambino. La psicanalisi tenterà di afferrare in cosa queste scelte posturali partecipino al tentativo di una costruzione narcisista del sé, in quanto immagine che crediamo buona ossia indispensabile per potersi alloggiare nel desiderio dell’Altro (allora il bambino può essere riconosciuto dall’Altro: sì, tu sei a immagine del mio desiderio), ugualmente nel desiderio degli altri: dal momento in cui il bambino fa divertire, è riconosciuto come un simile. Un tale orientamento della strutturazione intersoggettiva che (sur)determina il posto di Christian si fa a scapito di un equilibrio, poiché il posto propriamente soggettivo (S) , dove un essere parlante può apprendere a concedersi un desiderio e un posto simbolico che compone a partire dal suo rapporto con il desiderio e da ciò che sperare di scrivere per se stesso, soffre di un errore di investimento.
POSTURA, POSIZIONAMENTO SOGGETTIVO E TRAIETTORIA DI VITA
La materia relazionale, posturale, teatrale che propone la visione di questo bambino ha nutrito il mio desiderio di saperne di più su di lui. Non ho qui la possibilità di spiegare nel dettaglio i procedimenti della mia inchiesta. Ne propongo giusto una sintesi incompleta e maldestra. Il bambino Christian Vranken è diventato un adulto che è rimasto in seno alla sua comunità sociale e originale a Haccourt. Dopo diversi incontri, non ha mai esercitato un vero mestiere. Vive un periodo dai suoi genitori. Suo fratello e suo padre hanno convinzioni politiche di sinistra, addirittura di estrema sinistra, militano per la causa operaia e sono atei. Sono molto discreti. Non li si vede mai. Christian, lui, è molto implicato nella vita sociale ed ecclesiastica del suo villaggio. “Non un giorno che non era al villaggio”, mi dirà uno dei miei interlocutori. È una figura faro e porta la bandiera dell’associazione folcloristica “Les macrales di Hacou” (“le streghe di Haccourt”), è il portabandiera per gli anziani combattenti durante le cerimonie ufficiali, è assistente del prete durante i vari servizi liturgici, è capace di fare delle omelie davanti alla bara durante le sepolture. Beneficia di un aiuto dallo stato e finisce per vivere da solo in un alloggio sociale. Non ha chiaramente mai avuto delle relazioni d’amore o sessuali. “Ciò non lo interessava affatto […]. Era ingombrato dal suo corpo”. La sua rotondità e grassezza sembrano in parte dovute a un bisogno compulsivo e un’abitudine alimentare che gli facevano bere “una quindicina di Coca tutti i giorni”, oltre a questo le polpette fritte in salsa di coniglio, così di moda nei paesi nei dintorni di Liegi. Quattordici, quindici polpette non erano un problema per lui. In parallelo a questo impegno in seno alla vita sociale e associativa, Christian Vranken ha recitato dei ruoli in vari film realizzati da Jacques Hardy, professore di economia che conduce le sue creazioni totalmente ai margini dei circuiti abituali. Ha ugualmente cantato regolarmente in vari ristoranti e locali. Ha animato più di un evento festivo e sociale, dove era maggiormente atteso nel ruolo di intrattenitore per far divertire, ma dove dimostrava anche un talento di cantante dotato di grande memoria: conosceva a memoria un numero strabiliante di canzoni. In queste occasioni e anche in maniera generale, apparentemente, “non spendeva mai un franco”. Mangiava e beveva gratis e nessuno gli chiedeva veramente di pagare. Non so se riceveva qualcosa per le sue esibizioni musicali. In ogni caso, secondo le persone che ho interrogato, non ha mai avuto il minimo desiderio di un percorso professionale, né come attore, né come cantante, né come chicchessia. A questo livello persiste un’assenza simbolica che mi chiama in causa sin dall’inizio del mio lavoro. Ho provato a cogliere ciò che c’era a livello dell’intimo intra-soggettivo, ma è rimasto lettera morta, per lo meno lettera non desiderato e non scritta allora. Lui stesso non manifestava visibilmente mai dei segni di tristezza, di inquietudine, di solitudine, di depressione o di chissà cos’altro.
Il discorso della comunità (l’Altro) ha confortato questa assenza simbolica, trattenendo prima di tutto di questo uomo la sua figura immaginaria: nel feudo delle Macrales, al café “La Renommée” a Haccourt, si trova attaccata una placca commemorativa a Christian Vranken, sulla quale figurano la sua silhouette rotondetta, i piedi a papera e il nome con il quale tutti lo chiamavano, Babar.
PROPOSTE TERAPEUTICHE POST MORTEM
È al tempo stesso facile e imbecille proporre dei percorsi di lavoro terapeutico per un soggetto che è morto, e che, come se non bastasse, non sembra mai aver manifestato da vivo la minima questione in questo senso, anche quando alla fine della sua vita il diabete ha creato delle difficoltà. Tuttavia è ciò che desidero fare. La mia formazione e il mio desiderio me conducono a venire in aiuto al soggetto sofferente, ingombrato e ostacolato, senza pretendere di pensare il bene e la felicità per lui. Nel caso di Christian Vranken c’è questa assenza simbolica a livello di una soggettività che avrebbe potuto costruirsi con l’aiuto e a partire dal talento del bambino. Quando si vede il soggetto adulto recitare e cantare, è difficile non considerare che qualcosa non è accaduto dal lato del soggetto. Si vede un uomo dotato di una voce intonata, benché mancante di timbro e di spessore, dotato di una grande memoria e di un amore per le parole e probabilmente per la poesia, desideroso di essere in scena. Non è il caso di dire: “Ah, che peccato, ecco qualcuno che avrebbe potuto essere un attore, uno vero”. Non sarebbe che applicargli degli ideali che non erano i suoi. Ma un terapeuta può rischiare di avanzare qualche pista di lavoro:
- “Destabilire” il soggetto dal posto oggettuale sistematico che ha nello sguardo dell’Altro:
aprire la materia biografica; non alimentare (troppo) il proprio godimento di questo posto di creatore di divertimento nella relazione terapeutica: essere un altro Altro.
- Aprire e alleggerire l’asse immaginario per un lavoro sugli oggetti (a) in grado di dare consistenza a una costruzione narcisista fertile (a’), evitando un rapporto strettamente ed esclusivamente speculare tra a ---- a’: per esempio, invitare il soggetto a testimoniare in seno alla comunità di attori, come una possibilità di nuovi “confratelli”.
- Riportare un equilibrio vivente dal lato S (con il significato “attore”) e a’ (con la possibilità di un effetto virtuoso con il rinvio speculare dei simili), senza tuttavia spingere il soggetto verso i miraggi di A, dove potrebbe mettersi ad accampare una (im)postura professorale: aprire semplicemente e umilmente in lui la questione del desiderio di recitare e permettergli un posizionamento soggettivo in rapporto a questo desiderio, forse più dal lato della tecnica che di ciò che è relativo allo status socio-professionale dell’attore.
Non mi sento abilitato a proporre delle piste terapeutiche tratte dal metodo GDS. Ma trovo interessante aprire la possibilità etica e pratica di una terapeutica complementare. Penso che un lavoro parallelo sul modo in cui si aiuta qualcuno a compiere degli atti più precisamente il suo rapporto con la parola può andare fino al modo di attuare il rapporto col corpo, come luogo di parola e di godimento. Nel caso di Christian Vranken, troverò stimolante associare il lavoro sulle catene PM e PL alla problematica di postura immaginaria clownesca, al tempo fertile e alienante per il bambino. Troverò ugualmente fruttuoso associare il lavoro sulla catena AM alla questione della bulimia, del bisogno di zucchero e di grassi, come maniera di otturare una mancanza del lato dei bisogni intrasoggettivi profondi, che, per ciò che ne so, non sono assolutamente mai stati intrapresi da questo uomo. Silenzio radio su ciò da parte sua come nella comunità dove ha trascorso i 53 anni della sua vita. Non c’è rimprovero in questa constatazione. C’è solo il desiderio di offrire un fiore a un bambino da cui emana un tale desiderio di essere che contamina chi lo guarda. E che tuttavia, sembra essere stato un adulto che non ha raggiunto un certo posto possibile.
La tensegrità ispira qui il desiderio di una migliore circolazione logica ed energetica tra gli elementi messi in relazione e in tensione dalla struttura vivente che può essere una relazione terapeutica. Non si tratta di trovare tra questi elementi un equilibrio ideale, canonico e inerte, ma un equilibrio singolare, vivente e in movimento, costantemente in costruzione. Ciò a partire dalle singolarità intrasoggettive del terapeuta e del paziente, a partire dagli oggetti immaginari ed effettivi da abbandonare o da accogliere, a partire dalla singolarità intersoggettiva che si lega e si attua in seno alla relazione terapeutica in tanto che struttura aperta alla possibilità.
BIBLIOGRAFIA NON ESAUSTIVA
CAMPIGNON, Philippe, « A propos de la bio-tenségrité », in Accordages, La revue de l’APGDS France, n°1, 1er semestre 2014, p.36-39.
LACAN, Jacques, « D’une question préliminaire à tout traitement possible de la psychose », in Ecrits, Paris, Seuil, 1966.
LACAN, Jacques, Ecrits, Paris, Seuil, 1966.
MEGRET, Jean-François, La tenségrité : vers une biomécanique ostéopathique, mémoire de fin d’études en vue du diplôme d’ostéopathie, Montpellier, 2003.
TARENTO, Michèle, Construire son corps avec l’ostéo-éveil et la biotenségrité, Paris, Editions Sully, 2016.
Traduzione: Fabio Colonnello
1. Il lettore desideroso di conoscerli meglio può rifarsi alle seguenti fonti: Philippe CAMPIGNON, « A propos de la biotenségrité», in Accordages, La revue de l’APGDS France, n°1, 1er semestre 2014, p.36-‐39 ; Jean-François MAIGRET, La tenségrité : vers une biomécanique ostéopathique, mémoire de fin d’études en vue du diplôme d’ostéopathie, Montpellier, 2003 ; Michèle TARENTO, Construire son corps avec l’ostéo-éveil et la biotenségrité, Paris, Editions Sully, 2016.
2. Jacques LACAN, ≪ D’une question preliminaire a tout traitement possible de la psychose ≫, in Ecrits, Paris, Seuil, 1966, p. 548.
3. Dal francese, “parler” + “être”, traducibile come “parlessere” (n.d.t.).
4. La fonte di questa informazione: http://infos-deces.net/P1220.aspx?IdPer=258482