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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 5

STEFANO GIOVANNONI INCONTRA PALAZZO AGLIARDI

STEFANO GIOVANNONI

Cerco di lavorare su oggetti emozionali, espressione di un linguaggio figurativo e narrativo.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Oggi assistiamo ad un mutamento di paradigma professionale nel senso che le molte scuole di design nate negli ultimi 20-30 anni hanno portato alla formazione di designer “puri”, vale a dire progettisti-designer che non sono passati attraverso lo studio di architettura come avveniva quasi per tutti i designer fino ad una ventina di anni fa. Tu appartieni ai primi, avendo studiato prima e insegnato poi alla facoltà di Architettura di Firenze.

Stefano Giovannoni: La mia formazione non solo è legata all’architettura perché ho frequentato la facoltà di architettura a Firenze, ma soprattutto nell'architettura radicale degli anni d'oro, anni in cui Firenze era la città dove si faceva ricerca, contrapposta al Politecnico di Milano che era invece la città legata più al rapporto con la professione e con l’industria.

G.D.P.: Perché a Firenze si sentiva ancora l’energia dell’Architettura Radicale…

S.G.: C’era stato da pochi anni il movimento dell’Architettura Radicale e molti miei professori erano protagonisti di quel movimento, quello che è stato il mio maestro, Remo Buti, era un radicale con un approccio concettuale e minimale al progetto. Ma c’erano anche tutti gli altri: Gianni Pettena, i 9999, gli Ziggurat, Lapo Binazzi, Adolfo Natalini, De Lucchi era appena passato, c’erano stati Branzi e Morozzi con Archizoom, Superstudio, insomma una bella energia, un luogo di forte ricerca.

G.D.P.: Buti, il tuo maestro, un architetto minimalista e concettuale, mentre tu sei l’opposto. Hai dovuto “uccidere il padre”?

S.G.: Sì, la mia è stata una reazione al maestro, uccidere il padre in quegli anni era fondamentale.

La reazione è stata quella di lavorare su oggetti legati al kitsch, all’immaginario popolare. Facevo incetta di oggetti nei baracchini delle stazioni ferroviarie, nei mercatini. Mi interessava capire il tipo di comunicazione e di immaginario insito in quegli oggetti.

G.D.P.: Parli di comunicazione più che di forma, o meglio del fatto che la forma segue la comunicazione e non più la funzione secondo il dettato modernista?

S.G.: Certo, quando ho iniziato a lavorare sul design ho capito che che la nostra generazione si muoveva su input mediatici ed era quindi legata alla comunicazione in modo completamente diverso dalle generazioni precedenti. Comunicazione come elemento di trasmissione di determinati input concettuali ma anche come elemento capace di intercettare le nuove caratteristiche che assumeva il consumo. Le teorie di Jean Baudrillard sulla merce sono state per me molto importanti. Sui suoi concetti base ho improntato il mio lavoro fin dai primi anni. Per Baudrillard la merce era nuda e cruda, avulsa da ideologie. Questo mi ha molto aiutato nel trovare una strada in cui l’oggetto, il prodotto, diventava appetibile in quanto riusciva a comunicare una propria identità di merce con un pubblico che stava cambiando. In quegli anni si affacciava nel mondo del design un pubblico più giovane che chiedeva un tipo di oggetto diverso da quello tradizionale.

G.D.P.: Come quelli in plastica che progettasti per Alessi?

S.G.: Sì, Quando sono usciti i miei primi prodotti in plastica per Alessi il mondo tradizionale del design ha gridato allo scandalo.

G.D.P.: Che però ha cambiato il mondo e il mondo Alessi in particolare, ma faticasti a far accettare questi nuovi oggetti?

S.G.:Alberto Alessi era consapevole che il mondo stava cambiando e che c’era una necessità di cambiamento dove il mondo della plastica per un’azienda il cui core business era improntato sull’acciaio avrebbe intercettato nuove generazioni di consumatori. Ci fu una discussione che è durò a lungo: da un lato i commerciali temevano che la plastica potesse compromettere l’identità dell’azienda, dall’altra parte, Alberto Alessi intuiva che la plastica aveva una serie di potenzialità nuove. Aver capito questo ha permesso all'Alessi negli anni novanta di triplicare il fatturato, non tanto per l’indotto della plastica stessa, ma perché è cambiato il rapporto dell'azienda con i propri consumatori.

G.D.P.: Quindi si è rinnovata anche l’immagine?

S.G.: L'Alessi è passata da azienda specializzata in casalinghi di nicchia ad azienda lifestyle aperta alle nuove generazioni. Mi ha fatto molto piacere quando incontrai nel negozio di Fiorucci a Milano, dove erano esposte gli oggetti Alessi, due quindicenni che si litigavano l’ultima mia biscottiera con la mia firma.

G.D.P.: Comunque questo passaggio tu l’avevi provocato già prima con il vassoio in acciaio Girotondo progettato con Guido Venturini?

S.G.: È il primo oggetto disegnato, insieme a Venturini, per l’Alessi che non ha mai riconosciuto che esiste un Alessi prima e una dopo il Girotondo. Il Girotondo ha portato un cambiamento enorme, perché prima l’azienda si basava sulla produzione di caffettiere e bollitori che avevano 40-50 passaggi di lavorazione manuali con costi altissimi.

Il Girotondo ridusse a pochi passaggi di macchina, permettendo di tenere la produzione in Italia. Per questo ci hanno chiesto di fare 65 tipi di Girotondo. Sono stati venduti oltre 10 milioni di pezzi della famiglia Girotondo.

G.D.P.: Ma a Firenze eri stato studente, poi professionista e professore?

S.G.: Mi laureo nel ‘78 e fondo un gruppo con cui vinciamo due concorsi di architettura uno a Shikoku in Giappone e l’altro a Santa Croce sull’Arno con Bruno Zevi. Questo mi diede molta carica nel continuare il lavoro di ricerca, nell’85 creo il gruppo King-Kong con Guido Venturini. Nel frattempo sono stato due anni a Milano lavorando un anno con Sottsass e uno con Mendini e Alchimia.

G.D.P.: Esperienze che hanno prodotto cosa?

S.G.: Esperienze importanti che mi hanno avvicinato al mondo del progetto del lavoro in termini più concreti di quelli che avevo assimilato nel periodo universitario. Tuttavia, tornato a Firenze ci troviamo io e Guido senza lavori da fare. Abbiamo aperto lo studio e abbiamo deciso di fare una collezione di spille. Siamo andati a Milano dove abbiamo comprato diecimila cornicette, sintomatico dell’approccio al consumo che ci caratterizzava.

G.D.P.: E cosa ci avete fatto con queste cornicette?

S.G.: Abbiamo iniziato a incollarci piccoli animaletti, da una parte la testa dall’altra la coda, poi colavamo sopra resina che includeva piccoli oggetti di bigiotteria o spruzzavamo vernice, facendone delle spille.

G.D.P.: Fatte manualmente da voi?

S.G.: All’inizio si, andavamo anche con la valigetta a proporle in vari negozi. Poi è successo che i protagonisti di Quelli della Notte, di Indietro tutta - Arbore, Frassica e compagni - hanno iniziato ad indossarle, facendoci una pubblicità inconsapevole straordinaria e quindi le spillette sono decollate dappertutto, anche in Giappone (ride). Ma questo successo stava diventando una schiavitù e siamo ritornati sulle strade del progetto.

G.D.P.: È il momento in cui fondate il Bolidismo?

S.G.: Sì, avevamo conosciuto altri giovani architetti come Massimo Iosa Ghini, Dante Donegani, Massimo Mariani, Memory Hotel Studio, etc. e abbiamo dato origine a questo movimento chiamato Bolidismo che da un lato si riferiva ad una dimensione organica, antropomorfa, dall’altro c’era la necessità tipica degli anni ottanta di voler trovare un momento identificativo e personale. Per cui il Bolidismo venne recepito dai media, allora molto sensibili alla nascita dei movimenti di Neoavanguardia, e portò al successo e alla richiesta da parte di collezionisti anche stranieri di oggetti bolidisti che a volte non esistevano, perché erano dei modellini fotografati molto bene da apparire reali. Mediaticamente funzionò molto bene.

G.D.P.: Che materiali usavate?

S.G.: Schiuma di poliuretano, siliconi, oggetti da un’identità molto science-fiction. Nel frattempo Mendini aveva creato la rivista OLLO e ci chiamò per pubblicare i nostri progetti-modellini bolidisti. Così Mendini decise di presentarci ad Alberto Alessi e da lì Alessi ci chiese di disegnare un vassoio, e il giorno dopo nacque il Girotondo che fece decollare tutto.

G.D.P.: Ma oltre a lavorare con aziende di design storici come Alessi da qualche anno stai producendo oggetti per un marchio che hai creato tu...

S.G.: Ho creato un’azienda che si chiama Qeeboo in cui edito oggetti miei come le Sedute coniglio, o il KONG, o lo sgabello MEXICO, i portaombrelli KILLER di Studio Job, le Cherry Lamp di Nika Zupanc e altri.

G.D.P.: Hanno una linea di famiglia?

S.G.: Essendo io che scelgo, è chiaro che mi interesso di oggetti che rientrano in un linguaggio figurativo-narrativo-surreale che esprimono un approccio emozionale.

G.D.P.: Sono produzioni di serie?

S.G.: Assolutamente, di conigli in un anno e mezzo ne abbiamo già venduti 30.000

G.D.P.: Comunque continui a lavorare con le altre aziende?

S.G.: Certo sono stato il primo designer per pezzi disegnati, circa 600, per Alessi, per Magis.

G.D.P.: Lavori per aziende storiche del design, ma anche per aziende generaliste come FIAT, Samsung, qual è la differenza?

S.G.: Dopo gli anni novanta le cose sono cambiate anche perché molte aziende hanno delocalizzato la produzione in Cina. La tecnologia si è sviluppata altrove: prima in Giappone e poi a Taiwan. Gli stessi display touch per telefonia che sono stati utilizzati dopo dieci anni dalla Apple per l’iPad li avevo visti in primis a Taiwan. Ora tutto è spostato in Cina. Tuttavia questi ultimi due paesi erano e sono avanti sul piano della ricerca, ma indietro su quello del design e della cultura del progetto e quindi hanno cercato di interfacciarsi con noi.

G.D.P.: Come è lavorare con loro?

S.G.:Le differenze più importanti sono tra giapponesi, coreani e cinesi. Le aziende giapponesi sono quasi collettive e quindi hanno molta difficoltà a decidere. Ti chiedono di interagire con loro, capiscono bene quello che proponi ma, strada facendo, iniziano a discutere e difficilmente riescono a decidere. I coreani sono l’opposto, sanno ciò che vogliono, decidono subito, mentre i cinesi sono ancora culturalmente molto arretrati, spesso sono aziende molto ricche che, però, pensano che sia più importante vendere l’immagine del progettista del prodotto. Con i cinesi è molto difficile lavorare, e riuscire a mantenere i rapporti. Ho clienti coreani da anni e nessun cinese fisso. Stiamo disegnando per un’azienda cinese pale eoliche alte 120 metri, allestimenti di mostre eclatanti per i coreani, difficilmente realizzabili da noi.

G.D.P.: Comunque esiste una saturazione degli oggetti e in qualche modo anche del progetto, come se ne esce?

S.G.: Il mercato è saturo e noi abbiamo fatto Qeeboo proprio per rilanciare con dei progetti emozionali che sono quelli che oggi funzionano, perché vengono recepiti in maniera istintiva dal pubblico.

Quando ho disegnato il coniglio non mi aspettavo il suo successo. Bisogna andare verso un prodotto iconico che si può utilizzare in più modi. In precedenza il lavoro del designer stava nella creazione del bestseller che era un oggetto trasversale, oggi il contesto è cambiato il design di massa lo fa IKEA, il design si sposta verso una dimensione mediatica, emozionale.

G.D.P.: Hai molto insegnato, oggi non più?

S.G.:Il problema è che qui in Italia le scuole di design sono scuole di massa. Andare ad insegnare per un professionista da noi è quasi umiliante. A Londra e in altri paesi ci sono a disposizione mezzi e approcci differenti. Anche se ne sento la responsabilità vedo che da noi la scuola è abbandonata a sé stessa.

G.D.P.: Come vedi le nuove generazioni di design?

S.G.: Dopo la nostra generazione, i giovani hanno fatto molta fatica a sopravvivere, oggi vedo una nuova generazione che ha delle possibilità e ambizioni più concrete per affermarsi, per volare alto ed essere sé stessi.

G.D.P.: Chiudiamo con un altro girotondo, la mostra, Giro Giro Tondo. Design For Children in Triennale sul design per l’infanzia.

S.G.: L’idea è di Silvana Annicchiarico che mi propose di curare l’allestimento e l’immagine della mostra. Una mostra molto interessante in cui la parte storica all’inizio mi preoccupava, ma poi quando mi è stato dato spazio progettuale alla fine abbiamo fatto una mostra che è piaciuta a tutti trasversalmente, una mostra diversa.

G.D.P.: Che vuol dire che bisogna rimanere sempre un po’ bambini?

S.G.: Con l'immaginario e l’energia che hai nell'infanzia quando non hai ancora cristallizzata la realtà.

BIO

STEFANO GIOVANNONI (1954). Nato a La Spezia, Giovannoni si è laureato alla Facoltà di Architettura di Firenze nel 1978. Vive e lavora a Milano.

Lavora come industrial designer, ha realizzato numerosi best sellers e prodotti di grande successo commerciale che gli sono valsi gli appellativi di “Campione del Super & Popular degli anni 2000” (Alberto Alessi), “Re Mida del Design” (Cristina Morozzi), “Designer più bankable” (Eugenio Perazza, Magis). Collabora con aziende come Alessi, di cui è il primo designer con più di 300 prodotti in acciaio e in plastica (in particolare, la serie “Girotondo”, in assoluto la famiglia best seller nella storia delle aziende design-oriented, con più di 7 milioni di prodotti venduti, la famiglia “Mami”, “IlBagnoAlessi” e famosi prodotti in plastica come Lilliput, Magic Bunny e Merdolino), Magis (per cui ha disegnato, tra gli altri, lo sgabello “Bombo”, il prodotto più copiato nella storia del design, le famiglie “Vanity” e First”), Amore Pacific, Artsana, Bertazzoni, Bisazza, Cederroth, Deborah, Elica, Fabbrica Pelletterie Milano, Fiat, Hannspree, Hanssem, Helit, Henkel, Honeywell, Inda, KDDI, Kokuyo, Laufen, Lavazza, LG Hausys, L'Oreal - Maletti, Meglio, Mikakuto, Moooi, Nestlé-Frisco (art director nel 1996), Nissan, NTT Docomo, Olivari, Oras, Oregon Scientific, Papernet-Sofidel, Promelit, Pulsar, Replay, Samsung, Seiko, Shaf, Siemens, Skitsch, Sodastream, SPC, Star, Telecom, Toto, 3M, Tubes, Veneta Cucine, Vondom, ZTE, ecc...

www.stefanogiovannoni.com

PALAZZO AGLIARDI

Palazzo Agliardi racchiude 500 anni di storia della città e non solo di Bergamo: l’intreccio di vicende familiari, dinastiche, imprenditoriali, artistiche e militari che questo edificio racconta e testimonia è arricchito da grandi nomi ed eventi storici che vanno oltre le mura di Bergamo e segnano da un lato la storia d’Italia e dall’altro la storia dell’arte.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. dell'installazione di Stefano Giovannoni a Palazzo Agliardi © Ezio Manciucca– Ph. Lilliput; Fruit Mama; Coccodandy; Bunny Carrot; Girotondo; Kong; seduta Rabbit © Stefano Giovannoni – Ph. portaombrelli Killer e sgabello Mexico © Studio Job – Ph. Mostra Triennale di Milano AleGo1980 / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)| Editing di Roberta Facheris