Il tempo immobile
A chi importa del silenzio?
Era fermo, immobile da ore. Da giorni. Da anni, forse.
Un tempo senza tempo, il suo.
Era fermo ad un’ultima immagine, poi il gelo. Non aveva più pace, non più respiro.
Stentava persino a ricordare cosa fosse accaduto. Fotogrammi sparsi nella mente, solitamente lucida e razionale. Invece no, tutto aveva preso a vorticare, a sparpagliare i frammenti del mosaico.
Ricordava, cosa, esattamente?
Il buio, il freddo – più dentro che fuori – parole sconclusionate. Come ferri che trapassano.
“Sono qui, ti resto accanto, non me ne vado”
Un mantra continuo.
“Vai via, sparisci, vattene”
il mantra in risposta.
Dolore che si aggiunge al dolore.
Poi il film diventa confuso: solo gesti che ricordava a malapena. Il bianco accecante della sua spada. Il bianco delle vesti di chi tentava di portarlo via.
Il rosso del sangue.
Il rosso del nastro che cercava disperatamente di trattenere a sé.
Aveva pensato “Perché solo io? Portateci via. Prendete anche lui. Non si muove, non si muove più?”.
“Non voglio. Non voglio andare via.”
Un film scomposto che non spariva, mai. Neanche un attimo dalla sua mente.
Poi c’era stato il massacro del suo corpo.
Come se questo potesse strappare via i sentimenti dal cuore.
Che persone stupide.
Cosa ne sapevano di lui, di loro?
Come potevano pensare che piegare il corpo portasse via la cosa più importante?
Era solo un favore.
Se doveva esser costretto a stare lontano dall’unica persona mai amata, allora era meglio sopperire, annullarsi.
E lo aveva fatto.
Quel guscio che era stato in grado di dischiudersi solo con una persona, ora giaceva nuovamente serrato. Legato dalle cicatrici.
Rinchiuso nel suo cuore. Invisibile ad altri.
Quando lo avvertirono che il Patriarca, “finalmente”, era morto sentì qualcosa che si spezzava: non avrebbe saputo dargli un nome.
L’anima non ne ha mai uno.
La sua, ora, un cristallo scheggiato.
Quanto tempo era passato da quegli eventi?
Non sapeva dirlo.
Da morti non si calcola il tempo e lui era peggio che morto. Era sopravvissuto alla persona amata. Non importava che il suo corpo, per quanto ferito, fosse ancora lì.
Lui era altrove.
Era nelle cose mai dette e mai fatte.
Era con il pensiero fisso alla piega del collo che non gli aveva mai baciata. Quella linea sinuosa e in ombra, sfuggente sotto ai capelli in eterno movimento. La notava sempre quando lui rideva: alzava il mento, la bocca si piegava nel sorriso, i capelli vorticavano e quel nastro rosso gli finiva addosso. Sul volto, sui vestiti. Avrebbe voluto, anche lui, tirarglielo via mille volte. Scompigliare i capelli, infilare le mani in mezzo. Spingere quella testa sul suo petto. Farlo smettere di ridere a furia di morsi sulle labbra.
Era con il pensiero a quella linea d’ombra delle ciglia.
Quella che avrebbe seguito con le dita. Quella che avrebbe sfiorato con un soffio. Schiudendo delicatamente le labbra.
Era ancora, sempre, fermo alla sensazione, rubata, di calore: quante volte si era appoggiato a lui. Un braccio, contro il braccio. La schiena sul suo petto. Una mano posata addosso. Piccole parti. Riconosceva il tocco, il calore.
Lo aveva memorizzato così bene che la sua mente poteva riprodurlo nei minimi dettagli. Ancora, e ancora.
Come ancora pensava alla luce che vedeva nello sguardo. Quella luce che sapeva contenere intelligenza, malizia, ironia, sagacia. E il suo cuore. Quegli occhi per lui erano sempre stati il silenzioso e privato dialogo. Non gli servivano parole, ma sguardi.
Anche di quello aveva registrato tutto.
Ricordava esattamente il tono, la consistenza della pelle: quando l’incrocio degli abiti di spostava e intravedeva il suo petto. La tentazione (quante? Quante volte?) mai confessata di infilare lì in mezzo una mano, aprire il vestiario, scendere seguendo le linee dei pettorali. Scendere ancora, dove la pelle si fa più sottile. Più calda. Fare piccoli cerchi intorno, imparare a memoria ogni cellula. Trattenere, poi, sulle mani il suo profumo. E sentire quel brivido, ogni volta, andare dritto al cervello. Solo pensandolo, immaginando il gesto. Avrebbe segnato un percorso noto solo a lui; lo avrebbe imparato così bene da poterlo fare anche al buio. Anche se avesse poi inventato baci sulla stessa traiettoria. Avrebbe imparato il calore di ogni millimetro, assaggiando la pelle. Respirando ogni segno, ogni morbida curva. Era certo che avrebbe potuto, e che non avrebbe più saputo dove finissero le sue labbra; un impasto di due. Carni mischiate e legate. In due uno stesso ritmo e un respiro solo.
Ma non aveva mai fatto niente. Non gli aveva mostrato niente.
Adesso, non c’era luce, né pelle da toccare. Non c’era più nulla se non la collina invalicabile del suo dolore.
Non c’era ritorno, per quanto ci provasse.
Non c’era mai risposta, nonostante il continuo dialogo interiore.
Lui, che non aveva parlato mai, da quando Wei-Ying era morto, non aveva smesso un sotterraneo dialogo, nemmeno un istante. Nemmeno nel sonno.
Ogni frangente della loro vita in comune era costantemente ricordato e rinarrato. Lo teneva con sé, in quest’unica maniera.
Quanto tempo era che andava avanti in quel modo?
Non avrebbe saputo dirlo.
Sapeva solo che il nome sempre sulle labbra, la carezza che restava in attesa, erano le uniche verità del suo tempo senza tempo.
Ingoiava dolore.
Gridava forte le sue parole, serrava i pugni. La cosa più inaccettabile era non avere notizie, non sapere cosa avesse provato, non sapere dove fosse.
Che cosa succede “dopo”?
“Hai sentito male? Hai visto che ero con te? Hai sentita la mia mano? Lo sai, non ti ho lasciato andare via. Non c’ero, ma ero lì. Se allunghi le tue braccia mi trovi ancora. Non importa dove sono io e dove sei tu. Esisteva un “noi” che non sapevamo ancora. Esiste sempre. Devi tornare. Devi tornare perché io voglio dirtelo”.
“Devi tornare”.
“Voglio tornare”.
Anche il tempo immobile, a volte, può concludersi.