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Il letterato cortigiano Il potere e la cultura che lo rappresenta nel Rinascimento italiano

Dare un'occhiata agli affreschi della splendida Camera degli Sposi, sontuoso locale di rappresentanza dei duchi di Mantova - il terzo stato per potenza dell'Italia settentrionale dopo il ducato di Milano e la repubblica di Venezia - ci consente di cogliere in modo sintetico e forse anche spettacolare come si rappresentava agli occhi dei propri sudditi una corte rinascimentale. Lo stile di vita delle corti, che erano in pratica l'unico luogo di produzione culturale al di fuori delle Università - in declino rispetto alla loro epoca di splendore vissuta ai tempi di Dante e di S. Tommaso d'Aquino - è determinante per intendere il linguaggio e gli scopi della letteratura del periodo rinascimentale. Lo scrittore - fatta in parte eccezione per Niccolò Machiavelli, che aveva lavorato per il governo repubblicano sostituitosi ai Medici dopo la loro cacciata da Firenze nel 1494 - in quest'epoca è un ospite fisso, spesso un servitore o impiegato della corte; in molti casi i suoi talenti sono richiesti per allietare le serate e le occasioni mondane in cui il signore intreccia le sue alleanze, tratta i matrimoni dei figli, ospita figure come l'Imperatore, il Papa, i cardinali, figure che possono essere immensamente utili per i suoi interessi politici.

<<Parlare cortigiano é QUELLO CHE S'USA NELLE CORTI E LE CORTI SONO MOLTE: PERCIò CHE E IN FERRARA è CORTE, E IN MANTOVA E IN URBINO...>> PIETRO BEMBO, PROSE DELLA VOLGAR LINGUA, LIBRO I, CAP. 13

Il signore, in questo caso - siamo nell'ultimo quarto del '400 - il marchese di Mantova Ludovico Gonzaga, si fa rappresentare come un ricchissimo individuo privato, intorno al quale solo il grande numero di cani da caccia ricorda il rango di nobile dotato di diritti feudali. Per il resto non c'è differenza tra il modo di vestire suo e dei suoi servitori e quello dei nobili nati dalla finanza come i Medici a Firenze: stesse calzamaglie di seta finissima, stessi farsetti di vellutino. Soprattutto i gesti sono gravi ed insieme eleganti, e il marchese si fa rappresentare in mezzo alla cerchia di amici dotti e privilegiati e di parenti - tra cui il figlio secondogenito che all'abito si riconosce essere cardinale - con cui suole trattare, ben lontano da ogni controllo democratico e dallo sguardo del popolo che governa, gli affari dello stato come affari di famiglia

Anche i bambini, figli e nipoti del marchese - giacché il sistema di potere delle signorie prevede una costante assistenza tra il ramo signorile e i rami cadetti, cui vengono assegnati titoli nobiliari minori ed il governo di località strategiche all'interno dei confini dello stato -, gravi nel portamento, seri nel volto e lussuosamente vestiti, sembrano partecipare ad una riunione tra amici che ha qualche cosa dell'assemblea politica e qualche cosa del semplice ritrovo tra conoscenti vestiti a festa.

Grande importanza assume l'arte, che celebra la generosità con la quale il marchese "compra" un po' di consenso. Si tenga tuttavia presente che questi meravigliosi affreschi erano contemplati all'epoca solo dagli ospiti illustri del marchese oppure dai servitori della casa.

Comunque è la famiglia intera ad essere ritratta. Seduta a destra del marchese sta Beatrice di Brandeburgo, nobildonna della Germania settentrionale che Ludovico aveva sposato (ogni matrimonio tra i nobili del Rinascimento è una mossa politica accuratamente calcolata) per assicurarsi un buon rapporto con gli Asburgo, padroni dell'Impero germanico e del Tirolo e pericolosi vicini del marchese.

Le corti proiettano all'esterno attraverso l'arte e la letteratura una vita mondana pacifica e scenografica. Molte le occasioni per ritrovarsi con parenti, amici stranieri, collaboratori: la caccia, i ritrovi serali spesso allietati da musica, poesia e giochi di società, le feste di nozze in occasione delle quali vengono commissionate opere letterarie ben precise, come le Stanze per la giostra di

I signori rinascimentali, siano essi colti e spregiudicati banchieri come i Medici o aristocratici dalla secolare storia feudale come i Gonzaga di Mantova, amano circondarsi di bizzarrie, coltivare il proprio amore per il lusso e per gli svaghi prediletti, rendere chiaro a tutti che il loro potere è così grande da ricompensare riccamente chiunque abbia il privilegio di attrarre la loro simpatia anche per caso. Qui vediamo la nana di corte che, non meno orgogliosa dei suoi illustri padroni, guarda con una certa fierezza verso lo spettatore dell'affresco

Il letterato

La vita dell'uomo di lettere, che dopo essere stato formato, non di rado alla corte del signore stesso, in un'atmosfera molto libera e informale, da un maestro di studia humanitatis, cioè da un umanista che gli ha inculcato l'amore e la pratica della poesia latina e greca molto prima che di quella italiana del Medioevo - a volte del tutto trascurata -, mette le sue capacità, se riesce, al servizio del signore stesso, non è brillante e priva di problemi come potremmo supporre.

In Baldassar Castiglione abbiamo indubbiamente un esempio di uomo di lettere privilegiato - anche grazie all'estrazione familiare, probabilmente ebraica e molto benestante -. Egli in tarda età divenne vescovo, dopo essere stato sposato e avere animato con la sua cultura la corte di Urbino. La sua fama e la sua importanza di ambasciatore "informale" è testimoniata dal meraviglioso ritratto che Raffaello gli fece nel primo decennio del '500, dal quale tralucono due occhi chiari ma acuti, anche se miti in apparenza, una fronte leggerissimamente tesa come a meditare all'istante su quel che l'interlocutore sottintende, un vestiario di velluti pregiatissimi. I tessuti di pregio erano nel Rinascimento una sorta di investimento mobiliare: facili da mettere in baule e portarsi in viaggio, potevano essere facilmente venduti e consentivano di evitare di portare con sé il denaro contante in metallo pregiato. Erano inoltre rigorosamente necessari per un uomo che frequentasse le corti: a banchetto o durante le riunioni era assolutamente disdicevole vestire in tela, cotoncino o panno grezzo - gli abiti "da casa" -.

Baldassare delineò in un dialogo ancora oggi affascinante, Il Cortegiano, quali dovessero essere le virtù di un uomo che vive nelle corti: non deve essere certo un individuo amorale o immorale, ma deve sapere nascondere il proprio rigore morale dentro un contegno sempre elegante, gradevole, che sa adeguare la propria superiore cultura ai contesti più vari e che sa partecipare a svaghi frivoli cercando di renderli meno sciocchi e più virtuosi. In quest'opera gli antichi consigli morali riguardo all'amicizia ed ai rapporti sociali della tradizione filosofica (Aristotele, Cicerone) vengono adeguati al contesto delle corti, nel quale la cultura era essenzialmente svago ed ornamento, anche se a livelli di estrema raffinatezza.

Molto meno privilegiato - lo si capisce già dallo sguardo - è il modo in cui ci racconta la vita del letterato di corte Ludovico Ariosto, uno dei grandi autori della nostra letteratura rinascimentale. Specialmente dalle sue Lettere e dalle sue Satire, ma anche, a saperlo leggere, dal suo eccezionale poema cavalleresco l'Orlando Furioso, traspaiono le iniquità, gli arbitri, le delusioni personali - tenere amicizie che nel momento del bisogno decadevano in glaciali indifferenze - che rendevano la vita dell'uomo del Cinquecento, proteso a un sogno di affermazione personale e di riconoscimento pubblico, un affaccendarsi faticoso e vano nel labirinto inaffidabile delle passioni umane, senza speranza di trovare un centro del mondo o della propria esistenza.

Nella Satira prima, che probabilmente Ariosto scrisse perché circolasse tra i letterati e non perché fosse pubblicamente letta a corte, il poeta si lamenta della fedeltà che da lui esige Ippolito d'Este, che lo vorrebbe con lui in Ungheria dove è appena stato nominato cardinale, ad aiutare il re Mattia Corvino contro i Turchi. Ariosto si lamenta della vita del cortigiano in genere e dell'ingratitudine o dei comandi troppo imperiosi che sotto il manto di un'apparente familiarità spesso giungono dalla famiglia del signore

Ludovico Ariosto, Satira prima

SATIRA I

A MESSER ALESSANDRO ARIOSTO

ET A MESSER LUDOVICO DA BAGNO

Io desidero intendere da voi,

Alessandro fratel, compar mio Bagno,

s'in corte è ricordanza più di noi;

se più il signor me accusa; se compagno

5 per me si lieva e dice la cagione

per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

o, tutti dotti ne la adulazione

(l'arte che più tra noi si studia e cole),

l'aiutate a biasmarme oltra ragione.

10 Pazzo chi al suo signor contradir vole,

se ben dicesse c'ha veduto il giorno

pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

O ch'egli lodi, o voglia altrui far scorno,

di varie voci subito un concento

15 s'ode accordar di quanti n'ha dintorno;

e chi non ha per umiltà ardimento

la bocca aprir, con tutto il viso applaude

e par che voglia dir: «anch'io consento».

Ma se in altro biasmarme, almen dar laude

20 dovete che, volendo io rimanere,

lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Dissi molte ragioni, e tutte vere,

de le quali per sé sola ciascuna

esser mi dovea degna di tenere.

25 Prima la vita, a cui poche o nessuna

cosa ho da preferir, che far più breve

non voglio che 'l ciel voglia o la Fortuna.

Ogni alterazione, ancor che leve,

ch'avesse il mal ch'io sento, o ne morei,

30 o il Valentino e il Postumo errar deve.

Oltra che 'l dicano essi, io meglio i miei

casi de ogni altro intendo; e quai compensi

mi siano utili so, so quai son rei.

So mia natura come mal conviensi

35 co' freddi verni; e costà sotto il polo

gli avete voi più che in Italia intensi.

E non mi nocerebbe il freddo solo;

ma il caldo de le stuffe, c'ho sì infesto,

che più che da la peste me gli involo.

40 Né il verno altrove s'abita in cotesto

paese: vi si mangia, giuoca e bee,

e vi si dorme e vi si fa anco il resto.

Che quindi vien, come sorbir si dee

l'aria che tien sempre in travaglio il fiato

45 de le montagne prossime Rifee?

Dal vapor che, dal stomaco elevato,

fa catarro alla testa e cala al petto,

mi rimarei una notte soffocato.

E il vin fumoso, a me vie più interdetto

50 che 'l tòsco, costì a inviti si tracanna,

e sacrilegio è non ber molto e schietto.

Tutti li cibi sono con pepe e canna

di amomo e d'altri aròmati, che tutti

come nocivi il medico mi danna.

55 Qui mi potreste dir ch'io avrei ridutti,

dove sotto il camin sedria al foco,

né piei, né ascelle odorerei, né rutti;

e le vivande condiriemi il cuoco

come io volessi, et inacquarmi il vino

60 potre' a mia posta, e nulla berne o poco.

Dunque voi altri insieme, io dal matino

alla sera starei solo alla cella,

solo alla mensa come un certosino?

Bisognerieno pentole e vasella

65 da cucina e da camera, e dotarme

di masserizie qual sposa novella.

Se separatamente cucinarme

vorà mastro Pasino una o due volte,

quattro e sei mi farà il viso da l'arme.

70 S'io vorò de le cose ch'avrà tolte

Francesco di Siver per la famiglia,

potrò matina e sera averne molte.

S'io dirò: «Spenditor, questo mi piglia,

che l'umido cervel poco notrisce;

75 questo no, che 'l catar troppo assottiglia»

per una volta o due che me ubidisce,

quattro e sei mi si scorda, o, perché teme

che non gli sia accettato, non ardisce.

Io mi riduco al pane; e quindi freme

80 la colera; cagion che alli dui motti

gli amici et io siamo a contesa insieme.

Mi potreste anco dir: «De li tuoi scotti

fa che 'l tuo fante comprator ti sia;

mangia i tuoi polli alli tua alari cotti».

85 Io, per la mala servitude mia,

non ho dal Cardinale ancora tanto

ch'io possa fare in corte l'osteria.

Apollo, tua mercé, tua mercé, santo

collegio de le Muse, io non possiedo

90 tanto per voi, ch'io possa farmi un manto.

«Oh! il signor t'ha dato...» io ve 'l conciedo,

tanto che fatto m'ho più d'un mantello;

ma che m'abbia per voi dato non credo.

Egli l'ha detto: io dirlo a questo e a quello

95 voglio anco, e i versi miei posso a mia posta

mandare al Culiseo per lo sugello.

Non vuol che laude sua da me composta

per opra degna di mercé si pona;

di mercé degno è l'ir correndo in posta.

100 A chi nel Barco e in villa il segue, dona,

a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi

nel pozzo per la sera in fresco a nona;

vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi

se levino a far chiodi, sì che spesso

105 col torchio in mano addormentato caschi.

S'io l'ho con laude ne' miei versi messo,

dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ocio;

più grato fòra essergli stato appresso.

E se in cancellaria m'ha fatto socio

110 a Melan del Constabil, sì c'ho il terzo

di quel ch'al notaio vien d'ogni negocio,

gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo

mutando bestie e guide, e corro in fretta

per monti e balze, e con la morte scherzo.

115 Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta

con la lira in un cesso, e una arte impara,

se beneficii vuoi, che sia più accetta.

Ma tosto che n'hai, pensa che la cara

tua libertà non meno abbi perduta

120 che se giocata te l'avessi a zara;

e che mai più, se ben alla canuta

età vivi e viva egli di Nestorre,

questa condizïon non ti si muta.

E se disegni mai tal nodo sciorre,

125 buon patto avrai, se con amore e pace

quel che t'ha dato si vorà ritorre.

A me, per esser stato contumace

di non voler Agria veder né Buda,

che si ritoglia il suo sì non mi spiace

130 (se ben le miglior penne che avea in muda

rimesse, e tutte, mi tarpasse), come

che da l'amor e grazia sua mi escluda,

che senza fede e senza amor mi nome,

e che dimostri con parole e cenni

135 che in odio e che in dispetto abbia il mio nome.

E questo fu cagion ch'io me ritenni

di non gli comparire inanzi mai,

dal dì che indarno ad escusar mi vienni.

Ruggier, se alla progenie tua mi fai

140 sì poco grato, e nulla mi prevaglio

che li alti gesti e tuo valor cantai,

che debbio far io qui, poi ch'io non vaglio

smembrar su la forcina in aria starne,

né so a sparvier, né a can metter guinzaglio?

145 Non feci mai tai cose e non so farne:

alli usatti, alli spron, perch'io son grande,

non mi posso adattar per porne o trarne.

Io non ho molto gusto di vivande,

che scalco io sia; fui degno essere al mondo

150 quando viveano gli uomini di giande.

Non vo' il conto di man tòrre a Gismondo;

andar più a Roma in posta non accade

a placar la grande ira di Secondo;

e quando accadesse anco, in questa etade,

155 col mal ch'ebbe principio allora forse,

non si convien più correr per le strade.

Se far cotai servigi e raro tòrse

di sua presenza de' chi d'oro ha sete,

e stargli come Artofilace all'Orse;

160 più tosto che arricchir, voglio quïete:

più tosto che occuparmi in altra cura,

sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,

lo dà alla mente con sì nobil ésca,

165 che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m'incresca,

e fa che la ricchezza sì non ami

che di mia libertà per suo amor esca;

quel ch'io non spero aver, fa ch'io non brami,

170 che né sdegno né invidia me consumi

perché Marone o Celio il signor chiami;

ch'io non aspetto a mezza estade i lumi

per esser col signor veduto a cena,

ch'io non lascio accecarmi in questi fumi;

175 ch'io vado solo e a piedi ove mi mena

il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,

le bisaccie gli attacco su la schiena.

E credo che sia questo minor fallo

che di farmi pagar, s'io raccomando

180 al principe la causa d'un vasallo;

o mover liti in benefici, quando

ragion non v'abbia, e facciami i pievani

ad offerir pension venir pregando.

Anco fa che al ciel levo ambe le mani,

185 ch'abito in casa mia commodamente,

voglia tra cittadini o tra villani;

e che nei ben paterni il rimanente

del viver mio, senza imparar nova arte,

posso, e senza rossor, far, di mia gente.

190 Ma perché cinque soldi da pagarte,

tu che noti, non ho, rimetter voglio

la mia favola al loco onde si parte.

Aver cagion di non venir mi doglio:

detto ho la prima, e s'io vuo' l'altre dire,

195 né questo basterà né un altro foglio.

Pur ne dirò anco un'altra: che patire

non debbo che, levato ogni sostegno,

casa nostra in ruina abbia a venire.

De cinque che noi siàn, Carlo è nel regno

200 onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro,

e di starvi alcun tempo fa disegno;

Galasso vuol ne la città di Evandro

por la camicia sopra la guarnaccia;

e tu sei col signore ito, Alessandro.

205 Ecci Gabriel; ma che vuoi tu ch'ei faccia?

che da fanciullo la sua mala sorte

lo impedì de li piedi e de le braccia.

Egli non fu né in piazza mai, né in corte,

et a chi vuol ben reggere una casa

210 questo si può comprendere che importe.

Alla quinta sorella che rimasa

n'era, bisogna apparecchiar la dote,

che le siàn debitori, or che se accasa.

L'età di nostra matre mi percuote

215 di pietà il core; che da tutti un tratto

senza infamia lasciata esser non puote.

Io son de dieci il primo, e vecchio fatto

di quarantaquattro anni, e il capo calvo

da un tempo in qua sotto il cuffiotto appiatto.

220 La vita che mi avanza me la salvo

meglio ch'io so: ma tu che diciotto anni

dopo me t'indugiasti a uscir de l'alvo,

gli Ongari a veder torna e gli Alemanni,

per freddo e caldo segui il signor nostro,

225 servi per amendua, rifà i miei danni.

Il qual se vuol di calamo et inchiostro

di me servirsi, e non mi tòr da bomba,

digli: «Signore, il mio fratello è vostro».

Io, stando qui, farò con chiara tromba

230 il suo nome sonar forse tanto alto

che tanto mai non si levò colomba.

A Filo, a Cento, in Arïano, a Calto

arriverei, ma non sin al Danubbio,

ch'io non ho piei gagliardi a sì gran salto.

235 Ma se a voglier di novo avessi al subbio

li quindici anni che in servirlo ho spesi,

passar la Tana ancor non starei in dubbio.

Se avermi dato onde ogni quattro mesi

ho venticinque scudi, né sì fermi

240 che molte volte non mi sien contesi,

mi debbe incatenar, schiavo tenermi,

ubligarmi ch'io sudi e tremi senza

rispetto alcun, ch'io moia o ch'io me 'nfermi,

non gli lasciate aver questa credenza;

245 ditegli che più tosto ch'esser servo

torrò la povertade in pazïenza.

Uno asino fu già, ch'ogni osso e nervo

mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto

del muro, ove di grano era uno acervo;

250 e tanto ne mangiò, che l'epa sotto

si fece più d'una gran botte grossa

fin che fu sazio, e non però di botto.

Temendo poi che gli sien péste l'ossa,

si sforza di tornar dove entrato era,

255 ma par che 'l buco più capir nol possa.

Mentre s'affanna, e uscire indarno spera,

gli disse un topolino: «Se vuoi quinci

uscir, tràtti; compar, quella panciera:

a vomitar bisogna che cominci

260 ciò c'hai nel corpo, e che ritorni macro,

altrimenti quel buco mai non vinci».

Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro

Cardinal comperato avermi stima

con li suoi doni, non mi è acerbo et acro

265 renderli, e tòr la libertà mia prima

Da leggere sul libro

Da p. 130 a p. 135 compreso La voce dei testi

Da p. 136 a p. 138

Da p. 226 a p. 242. Vita e Satire di L. Ariosto

Il professor luigi gaudio ti aiutera' a capire ariosto con questa interessante lezione

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Magister Caevascus
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