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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 22

UGO LA PIETRA INCONTRA PALAZZO TERZI

UGO LA PIETRA

Bisogna lavorare all’arredo urbano nel senso alto della parola, bisogna fare opere urbane che danno identità al luogo.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Partiamo dal contesto che ha generato questa intervista, ovverosia dall’esperienza di DimoreDesign che consiste nell’esporre opere di design contemporaneo in un contesto abitativo antico, e nel tuo caso particolare in Palazzo Terzi.

Ugo La Pietra:Mi piacerebbe prima di tutto soffermarmi sull’opera Unità nella diversità del 2011 composta da venti teste ognuna rappresentante una regione italiana, più una ventunesima che è l’Italia. E’ una collezione di opere realizzata in occasione della ricorrenza dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Ogni testa-vaso rappresenta una diversità regionale.

Quindi, questa collezione è l’espressione di un tema oggi estremamente attuale, quello delle diversità nell’unità. Un tema che si contrappone in modo preciso alla crescita della globalizzazione che è un modo per annullare, superare il discorso della diversità.

Tuttavia sta sempre più crescendo un’opposizione alla globalizzazione che si manifesta con l’esaltazione della diversità. Per cui la collezione, Unità nella diversità, fatta in occasione della celebrazione dell’Unità d’Italia, assume un significato importante nel rapporto globalizzazione e diversità e ciò gli conferisce un forte senso di contemporaneità.

Il fatto di averle collocate all’interno di un importante palazzo storico rappresenta il tentativo di mettere a confronto anche altre due realtà: quella della storia consolidata con quella della contemporaneità, due fenomeni che si contrappongono ma che cercano di convivere.

G.D.P.: Si tratta di un’opposizione, oppure un tentativo di conciliazione di una società schizoide?

U.L.P.:Sì, viviamo in una società schizoide in cui abbiamo contemporaneamente un fenomeno naturale che si oppone al virtuale e viceversa, il fenomeno della globalizzazione che si oppone alla diversità e il fenomeno della storia che si vede circondato dal mondo della contemporaneità. Queste tre grandi opposizioni sono abbastanza rappresentate dalla collezione delle teste di ceramica in questione Unità nella diversità.

G.D.P.: Vogliamo descriverle anche formalmente e produttivamente, in quanto, oltre al contenuto simbolico di cui hai parlato, esse rivestono anche un contenuto teorico all’interno del tuo percorso progettuale e non solo, che è quello del recupero dell’artigianato, in un mondo e modo in cui il design si era consegnato totalmente all’industria.

U.L.P.: Si, essa rappresenta anche il genius loci, cioè il tentativo di ritrovare attraverso i vari territori le diverse identità. In Italia abbiamo questa possibilità di leggere i luoghi come diversità di culture, tradizioni e varie identità che si sono espresse nel tempo. Quindi nel caso di Unità nella diversità il genius loci riguarda la Sicilia, in particolare Caltagirone, una città che esprime in modo evidente l’identità nella diversità con una risorsa territoriale da sempre coltivata nella lavorazione della ceramica. Ceramica che si rinnova naturalmente con il succedere delle generazioni.

G.D.P.: E quello che tu hai fatto è inserire uno tuo progetto artistico in una risorsa del territorio per verificarne non solo la tenuta storica, ma la possibilità di proiettarsi nel futuro.

U.L.P.: Si, quest’opera, Unità nella diversità, rappresenta uno dei temi che ho sviluppato negli ultimi trenta, quarant’anni, quello di

dare valore e significato a quelle aree territoriali dove esistono ancora delle risorse materiali che hanno bisogno di essere alimentate dal progetto, dall’idea di rinnovamento.

Infatti, uno dei miei più importanti contributi, anche nella didattica, è quello dato all’Accademia di Belle Arti di Brera in cui ho fondato un dipartimento che ho chiamato Progettazione Artistica per l’Impresa. All’interno del corso istituii una materia fondamentale: “Risorse del Territorio”; chiedevo ai professori di portare gli studenti nei luoghi dove si intendeva fare il progetto, cercando di metterli in relazione con le risorse territoriali, non solo di carattere materiale (la ceramica a Caltagirone, la pietra nel Salento, il marmo a Carrara, l’ardesia in Liguria, o l’alabastro a Volterra) ma anche con quelle culturali legate alla tradizione, alla storia, agli usi e abitudini, valori di cui servirsi per sviluppare un progetto che attinga i propri significati dal genius loci.

G.D.P.: E il caso delle teste Unità nella diversità realizzate con i ceramisti di Caltagirone ne è proprio un esempio concreto.

U.L.P.: Infatti, queste teste riprendono una tipologia molto arcaica, che è il portavaso di ceramica con fisionomia antropomorfa, che parte dalla proposizione di visi che alludono allo schiavo moro, che abbiamo rinnovato attraverso teste che raccontano l’identità delle regioni.

G.D.P.: E visto che nascono in occasione della celebrazione dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia mi fa pensare che possono anche essere simbolicamente considerate, nel campo del design ovviamente, come una sorta di sbarco dei mille progettuale. Ma la cosa interessante è che ne parli come di un lavoro sul territorio. Questo tema del territorio, non è solo del tuo design, ma del tuo progetto in generale a partire dall’architettura?

U.L.P.:

Sì è un aspetto del mio lavoro in generale, design, architettura, arte, perché credo che uno dei ruoli dell’artista sia proprio quello di lavorare per il sociale. L’ho fatto per tanti anni, teorizzandolo e realizzandolo in tutte le mie fasi e con tutte le manifestazioni espressive.

Anche l’architetto è quel tipo di creativo che lavora pensando al territorio in cui si colloca, per cui è abbastanza facile immaginare che in una città come Ostuni, dove tutte le case sono bianche, nessuno penserebbe mai di realizzare una casa col tetto a falde e dipinta di rosso. Tuttavia, molto spesso artisti, architetti, designer non riconoscono questo valore dell’identità territoriale, muovendosi con una modalità globale e dunque producendo opere uguali da Zurigo a Tokyo, o a Palermo. Mentre a me, e ad alcuni altri, ci interessa riconoscere l’identità territoriale e valori del luogo.

G.D.P.: Stiamo dunque procedendo sempre più verso il tema dell’abitare, tema centrale nel tuo lavoro, espresso anche con tue opere considerate “concettuali” come la scritta: ABITARE È ESSERE OVUNQUE A CASA PROPRIA che io considero come una delle opere più importanti degli anni sessanta-settanta.

U.L.P.: Le mie ricerche sia pubbliche che private sono sempre legate allo spazio abitativo. Ci sono sempre molti momenti di ricerca, pensiamo alla Casa telematica, presentata al MoMA di New York nel 1972 nella mostra Italy, the new domestic landscape.

È l’identità e la ricerca dei rituali domestici che nel tempo si è evoluta nella ricerca di nuovi usi e abitudini dello spazio privato.

Ma così pure molta ricerca è stata sviluppata nello spazio pubblico, dove il tema dell’abitare è importante. Lo spazio pubblico non si lo si deve semplicemente usare, ma si deve anche abitare al pari dello spazio domestico. Oggi lo spazio pubblico è un concetto abbastanza lontano da quelle che sono le nostre pratiche quotidiane, però rimane sempre spazio che io continuo ad adoperare spesso e volentieri attraverso progetti, opere, interventi, scritti nel tentativo di far ricrescere la consapevolezza, nell’individuo urbanizzato, di poter anche abitare lo spazio collettivo.

G.D.P.: Come concili, o spieghi il fatto che negli anni settanta lavoravi con la fiducia nella tecnologia e del suo destino moderno legato al futuro di cui la Casa telematica ne è un esempio, mentre verso la fine degli anni settanta inizio ottanta compi la svolta postmoderna di spostare il tuo lavoro verso pratiche opposte come quello dell’artigianato del recupero delle origini in qualche modo?

U.L.P.: Certamente non è calcolato, in quanto il mio modo di lavorare è quello di un artista che non parte dalle proprie intime sensazioni, o emozioni.

Io parto sempre osservando l’esterno, la società che, a seconda di certi momenti storici, mi sollecita alcune considerazioni, o prese di posizione.

Per esempio agli inizi degli anni settanta le prime strumentazioni mi avevano sollecitato la possibilità di trasformazione, comunicazione e quindi di trasformazione della società e da lì sono nate delle proposte evolute che anticipavano quelle che sarebbero state modalità future come quella di internet, robotica, domotica, eccetera. Quando poi la società mi ha sollecitato, fine anni settanta e inizio anni ottanta, che il mondo del design aveva dimenticato la cultura del fare, ho spostato la ricerca passando dalla telematica al mondo del classico in cui risiedevano i valori della cultura del fare; una realtà sommersa e spesso anche disprezzata dalla cultura del progetto. Si tratta di un mondo sotterraneo che riproduceva modelli del passato ma che conservava i valori della cultura materiale come la lavorazione del legno, del mosaico, della ceramica, del ferro, della pietra.

Le mie attenzioni sono rivolte quasi sempre a dei fenomeni di cui ho preso coscienza, per cui agli inizi degli anni ottanta divento lo storico del design che scrive il primo vero libro su Giò Ponti che fino a quel momento nessuno aveva avuto il coraggio di trattare, perché considerato un personaggio scomodo da classificare: artista? Designer? Architetto? Editore?

Ma io non sono uno storico, come non sono un designer, però scopro lacune sommerse e divento un esploratore con i miei mezzi che sono quelli dell’artista, che di volta in volta si serve di mezzi diversi: quadri, oggetti, film, installazioni.

Quello che forse non si è ancora compreso è che io inizio a lavorare nel 1958 come artista e di volta in volta invece di partire dalle proprie viscere parto da quello che seguo nella società che mi circonda: ecco perché sono convinto di essere un artista che lavora per il sociale che è diverso dall’artista che lavora nel sociale. Chi lavora nel sociale porta la propria opera nella città, come ad esempio le sculture di Pomodoro o Staccioli, mentre io parto dalle problematiche della società e da lì cerco di dare un contributo non solo come intellettuale, ma come formalizzatore. Ciò è evidente anche nel fatto che mi sono sempre definito, non artista, architetto, designer, ma operatore estetico.

G.D.P.: Ti sei mai chiesto come mai, pur essendo un artista, gli altri tendono sempre a collocarti maggiormente nel mondo del design e dell’architettura?

U.L.P.: La premessa a tutto questo è che mi sono laureato nel 1964 con una tesi intitolata "Sinestesia tra le arti", convinto che si fosse entrati in un’epoca in cui fosse possibile superare l’integrazione tra le arti, al contrario delle procedure allora correnti in cui l’architetto faceva l’architettura e lasciava uno spazio per il pittore, o per lo scultore. La sinestesia voleva dire che uno stesso autore potesse esprimersi con varie discipline, transitando da una all’altra.

Ero convinto di questa possibilità e dunque ho attraversato le discipline, praticandole e cercando di dare dei contributi che spiegavano tutto ciò, rimanendo per interesse culturale e personale maggiormente sul piano progettuale.

Questa posizione di transito fra le discipline crea negli altri confusione, la mia figura diventa di disturbo per chi vuole lavorare solo sulla disciplina. L’unica disciplina che ha, o conserva queste caratteristiche più di transito è il design in quanto non si sa ancora bene cos’è. Io volevo attraversare le discipline come artista originale con la logica della sinestesia come operatore estetico, ricercatore estetico, e anche se negli ultimi anni mi hanno iniziato a chiamarmi maestro, io continuo a considerami un operatore estetico dalla poetica sinestetica. Su questo ho quasi pronto un libro che si intitola: "Volevo Fare l’artista, ma poi non me l’hanno fatto fare".

G.D.P.: Vieni anche considerato un autore con una poetica, o una cifra politica.

U.L.P.: Questo perché sono un artista che guarda al sociale e da li trae la propria “ispirazione”.

Non mi lascio trascinare dalla bellezza del paesaggio, dai problemi antropologici o del corpo, ma quello del sociale sì, mi interessa molto.

In questo sono stato condizionato a partire dagli anni cinquanta anche da certe letture e frequentazioni come quella dell’Internazionale Situazionista. Quindi, il rapporto con il sociale mi ha sempre ispirato. Per questo ho un’attitudine vicina a quello che era l’intellettuale di una volta, quella di dare delle indicazioni al sociale che nel mio caso si esprime oltre che nella dimensione del racconto con le otto riviste che ho diretto, con la formalizzazione di opere d’arte. È anche vero che uno dei miei ruoli è quello dell’animatore sociale che lavora in gruppo, coinvolge persone, fa cose con tanti autori.

G.D.P.: Con questo pensi che l’arte possa contribuire a cambiare il mondo?

U.L.P.: Sicuramente, ho sempre avuta questa convinzione. Penso che le cose possono e devono cambiare.

Bisogna lavorare ad esempio all’arredo urbano nel senso alto della parola, mentre quello che si fa di solito è fornitura stradale, mentre bisogna fare opere urbane che danno identità al luogo.

Ad esempio a Cattolica, parecchi anni fa, ho fatto il monumento all’architettura balneare con opere che rappresentano l’identità del luogo e del gruppo sociale che vive lì. Opere che allora non furono capite e diverse nel tempo sono state distrutte. Oggi ne rimane una sola. Poco tempo fa volevano distruggere anche l’ultima rimasta, ma c’è stata una sollevazione popolare che l’ha impedito, perché è stata riconosciuta, sentita come opera che rappresenta l’identità del luogo. Quindi si possono e devono fare opere che non siano monumenti, o forniture stradali, ma cose in cui la gente si riconosce.

G.D.P.: Vorresti dire qualcosa ai giovani che oggi vogliono intraprende quest’avventura dell’artista, designer, architetto, operatore estetico?

U.L.P.: La prima cosa è di fare progetti, partendo dalla società, dalle risorse del territorio. Guardate al vostro territorio sia per le risorse, sia per i valori che per l’identità, perché ci sono tante cose da fare.

BIO

UGO LA PIETRA nasce a Bussi sul Tirino (Pescara) nel 1938. Si laurea in Architettura nel 1964 al Politecnico di Milano e, contemporaneamente si dedica a ricerche nelle arti visive e nella musica. Si è sempre dichiarato “ricercatore” nelle arti visive e nella comunicazione.

Ha comunicato le sue ricerche attraverso molte mostre in Italia e all’estero. Ha curato diverse esposizioni alla Triennale di Milano, Biennale di Venezia, Museo d’Arte Contemporanea di Lione (FR), Museo FRAC di Orléans (FR), Museo delle Ceramiche di Faenza, Fondazione Ragghianti di Lucca. Ha vinto il Compasso d’Oro nel 1979.

Le sue esperienze di ricerca in architettura e nel design lo hanno portato a sviluppare temi come “La casa telematica” (MoMA di New York, 1972 – Fiera di Milano, 1982), “Rapporto tra Spazio reale e Spazio virtuale” (Triennale di Milano 1979, 1992), “La casa neoeclettica” (Abitare il Tempo, 1990), “Cultura Balneare” (Centro Culturale Cattolica, 1985/95). Ha sempre sostenuto con opere (oggetti), documenti (direzione delle riviste IN, Progettare Inpiù, Fascicolo, Area, Abitare con Arte, Artigianato) un design carico di significati, per un “design territoriale” contro il design internazionalista.

www.ugolapietra.com

PALAZZO TERZI

Palazzo Terzi, realizzato nel XVII secolo, è il più importante edificio barocco della parte alta di Bergamo. Così come la storia della città è una storia stratificata, fatta di continui mutamenti, di epoche costruite l’una sulle fondamenta dell’altra, anche Palazzo Terzi nasce da pre-esistenti costruzioni rinascimentali.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Opere. In ordine di apparizione: le ceramiche “Italia” (Realizzata da Istituto d’Arte di Caltagirone), “Campania” (realizzata da Alessandro Iudici) , “Basilicata” (realizzata Bottega Branciforti, Caltagirone 2011), “Calabria” (realizzata da Francesco Navanzino, Caltagirone 2011), “Emilia Romagna” (realizzata Bottega Branciforti), “Sicilia” (realizzata Bottega Branciforti), “Sardegna” (realizzata da Alessandro Iudici, Caltagirone 2011); Il progetto “Videocomunicatore” (1972), la fotografia “Sistema disequilibrante, il Commutatore, 1970, Modello di Comprensione”, la fotografia “Monumento alla balnearità” (Cattolica, 1988) | Editing di Roberta Facheris