Resilienza

«Finalmente! - Finalmente! - Finalmente! - finalmente un sollievo alla pena! Finalmente carta, matite, pennelli, colori per scrivere, per disegnare. Posso dipingere e così sopportare ciò che altrimenti sarebbe stato insopportabile. Mi sono sottomesso e umiliato per averli, ho chiesto, pregato, mendicato, avrei anche piagnucolato se non ci fosse stato altro modo. Oh, Arte! - Cosa non sopporterei per te!» scrive il pittore austriaco Egon Schiele nel 1912, anno in cui venne incarcerato sotto l'accusa di pedofilia e, successivamente, diffusione di pornografia attraverso le sue opere. Si evince che ciò che permette all'artista di resistere è l'Arte stessa, ossia l'espressione dei propri moti dell'animo mediante la poetica della sua dote. È dunque grazie alla possibilità di raccontarsi e di persistere nel tempo, per mezzo di tele nel caso di Schiele o sulla carta come sarà per Antonio Gramsci, che le personalità immense della fine del XIX secolo e del XX secolo ci lasciano in custodia delle riflessioni, ora più che mai, attuali. «Devo vivere con i miei escrementi, respirarne l'esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta - non posso nemmeno lavarmi a modo. Eppure sono un essere umano! - anche se carcerato; nessuno ci pensa?» confessa il pittore, esasperato dal clima oppressivo del carcere, nel quale l'unica speranza coincide con la possibilità e l'intensità di manifestare la sofferenza di quei giorni, servendosi di quello che è l'atto più forte di denuncia possibile all'essere umano: l'espressività.

«Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un'arancia brillante che mi ha portato Wally è l'unica luce che risplenda in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile» E. Schiele, Arancia 1912

Ma, se da una parte Schiele esce dallo stato di prigionia "unicamente" turbato, altre personalità immense non riusciranno a sopraffare l'angoscia di tale condizione. Ne La ronda dei carcerati dipinta nel 1890, Vincent Van Gogh rappresenta efficacemente l'indifferenza del potere verso il dramma umano, appena ventidue anni prima del suo collega. L'artista, attraverso questa tela, manifesta l'angoscia della periodo di reclusione nell'ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, nel quale egli inizia a percepire un velo di straziante abbandono. Non esiste via di fuga secondo la sua prospettiva, i muri precludono qualsiasi orizzonte, denotando un marcato senso di claustrofobia e gli uomini stessi si lasciano sopraffare da un movimento ripetitivo e spersonalizzante. Non vi è la possibilità di vedere il cielo, sottolineando lo stato irrequieto dell'imprigionamento, accentuato da dei muri che sembrano farsi sempre più vicini, stringendo lo spazio e marcando sempre più la precarietà della posizione dei soggetti raffigurati - fra i quali, non a caso, compare lo stesso Van Gogh, in primo piano -. Il pittore non focalizza però la sua attenzione sulla malattia mentale che lo affligge, piuttosto egli desidera esprimere con la sua voce (in senso figurato) l'ansia derivata da una società che assoggetta, marginalizza, richiude tali personalità immense. «Fratello mio caro — è sempre in un intervallo di lavoro che ti scrivo —, fatico come un vero ossesso, provo più che mai un furore sordo di lavoro, e credo che questo contribuirà a guarirmi. Forse mi succederà una cosa come quella di cui parla Delacroix: “Ho trovato la pittura quando non avevo più ne denti ne fiato”, nel senso che la mia triste malattia mi fa lavorare con un furore sordo, molto lentamente, ma dal mattino alla sera senza interruzione; ed è questo, probabilmente, il segreto: lavorare a lungo e lentamente.» scrive dal manicomio nel 1889, rivolgendosi a Theo, suo fratello e principale confidente. Emerge nuovamente l'importanza vitale dell'espressione, che dà sollievo, ma non sempre riesce ad alleviare i dolori dell'angustia. Lo stesso Gramsci successivamente manifesterà, mediante l'espressività delle sue lettere, un simile stato dissociativo, a causa del quale però si distaccherà non solo dalla realtà circostante ma anche da se stesso.

«Non ho evitato il tentativo di esprimere tristezza e solitudine estrema, io credo che questi quadri diranno anche a voi ciò che io in parole non so dire» V. van Gogh, 1889

Il politico definisce tale naufragio dell'anima come «trasformazione molecolare», a causa della quale il suo spirito di resistenza si assopisce progressivamente con l'aggravarsi della suddetta sofferenza. Egli si rende conto che sta mutando interiormente tanto quanto il mondo che lo circonda lo sta facendo esteriormente, a causa della disillusione della sinistra e della corruzione. Percepisce se stesso instabile: «Non ci sarà più autocontrollo, ma l'intera personalità sarà inghiottita d un nuovo individuo» e cerca di porre una fine a tale cambiamento, arrivando persino a confessare che forse l'unica cura possibile consiste nel bloccare il flusso di pensieri su carta che lo ha accompagnato fino al 1933 (si trova rinchiuso già da quattro anni). Così radicata e sentita è la sua angoscia da fargli credere che perfino l'espressione, la parola, un'arma potentissima, gli sia nociva. La prigionia fa vacillare sia la volontà che l'intelligenza di Gramsci che, sottoposto a una costante e ripetitiva spersonalizzazione, non scorge alcuna via di salvezza e come Van Gogh, anch'egli percepisce che fuggire è una possibilità remota.

«L'ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque» M.L. King, 1963

Nonostante la valenza degli scritti disperati o dei quadri carichi d'angoscia, la coscienza da essi derivata tende inevitabilmente ad affievolirsi. La memoria della resistenza contro i suprusi - mossi da qualsiasi convinzione distorta - viene di volta in volta oscurata da ripetute, sfortunatamente incessanti, prevaricazioni. Non è da intendersi però che la violenza sotto ogni sua forma, verbale - fisica - psicologica che sia, provenga unicamente da una direzione. Come nel il caso di Harry Wu, arrestato dal 1960 al 1979 perché cattolico e considerato controrivoluzionario di destra (speculativamente a Gramsci) : «Non parlavo più con me stesso. Ho visto tante pallottole conficcate nel cervello del mio vicino. Un’ immagine che mi porto dentro, ma il pensiero fisso o meglio quell’aborto di pensiero era uno: come faccio a sopravvivere? Ti attacchi al tuo vicino, senti i crampi della fame, ti rotoli nella terra, non vivi, ti lasci vivere e… morire. Welcome to Laogai». Scampato vivo alla sua prigionia, manifesta un'irrequietezza di tutt'altro tipo rispetto a quella di Schiele, la sua necessità di espressione assume un tono globale, non solo testimonianza ma una vera e propria battaglia contro la violazione dei diritti umani in Cina. Wu, come le altre personalità immense del secolo, rende se stesso portavoce dello strazio provocato dalla carcerazione. «Ho passato i primi tre anni a piangere, mentre le guardie mi umiliavano e i compagni mi derubavano. Poi ho cominciato a rubare anch’io, a pensare soltanto a sopravvivere. Sono sopravvissuto perché mi sono trasformato in una bestia», sempre presente è il fine di spersonalizzare il pensiero racchiuso dentro questi uomini, che seppure in ambiti diversi e con disparate reazioni, sono tutti accomunati dalla medesima forma di censura.

«La cosa più difficile al mondo è sapere pensare» B. Pascal

Come Wu, un'altra personalità immensa che ha combattuto e combatte tutt'oggi per la propria libertà di espressione è Ai Weiwei, condannato alla reclusione nel 2011 a causa delle sue critiche allo Stato e le autorità cinesi, sempre mediante le sue opere. «Ho subito tutti i livelli di privazione della libertà. Molte situazioni sono state estreme. Ci sono stati giorni in cui non sapevo dove mi trovassi, di cosa fossi accusato, quale sentenza mi attendesse». Analogamente al collega, al momento del rilascio si impegna maggiormente nell'abbattere il sistema coercitivo e crea S.A.C.R.E.D. (Super, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt). Si tratta di sei enormi parallelepipedi di ferro al cui interno sono state allestite, per riportare i momenti "quotidiani", alcune scene della vita in prigione del suddetto. Per vedere le stanze l’unico metodo possibile è spiare da dei piccoli fori appositamente ideati, per riprodurre ulteriormente il senso di costrizione claustrofobica del carcere. «Io sono estremamente pericoloso. Lo Stato ha conservato troppo a lungo questa forma di società. Non può tollerare opinioni divergenti.»

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