Giuseppe Fava
Originario di Siracusa, Giuseppe Fava opera a Catania come giornalista, occupandosi anche di teatro, cinema e scrittura.
Fava si laurea in legge, ma ha un concetto particolare della professione di avvocato: vorrebbe difendere solo gli innocenti.
Fallendo come avvocato, decide di trasferirsi stabilmente a Catania, la "Milano del Sud", iniziando a lavorare al Corriere di Sicilia e, negli anni '50, all'Espresso Sera.
Presso questo giornale si occupa soprattutto di cronaca nera.
Fava inizia quindi a comprendere i rapporti che esistono tra la città di Catania e la sua imprenditoria, compromessa con l'organizzazione mafiosa.
L'imprenditoria catanese è costituita soprattutto dai quattro cavalieri del lavoro: Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro.
Fava successivamente dirige il Giornale del Sud, i cui editori ignorano le sue idee, ma ben presto viene licenziato e tutto questo lo porta a fondare un suo giornale col figlio Claudio.
22 dicembre 1982
I Siciliani
Giuseppe Fava fonda la sua rivista, I Siciliani, pubblicata mensilmente anche a Milano, Roma, e nelle grandi città italiane fuori dall'isola.
Grazie al giornale, egli affronta la storia di 100 omicidi avvenuti in un solo anno e legati all'appalto di opere pubbliche, al contrabbando di droga e di sigarette, evidenziando l'infiltrazione della mafia all'interno dello Stato.
28 dicembre 1983
Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’ItALIa
Fava, nell'intervista di Enzo Biagi che probabilmente gli costerà la vita, afferma che la mafia è un fenomeno italiano, non siciliano, e che non sono solo i siciliani a doverla combattere, ma ogni abitante della penisola. Essa infatti, si è infiltrata in ogni ambito politico, economico e finanziario.
5 gennaio 1984
La morte
La sera della sua morte piove a dirotto, la polizia riceve una telefonata anonima:
Giuseppe Fava si trova nella sua Renault, ucciso da cinque colpi di pistola, due dei quali mortali.
Grazie alle indagini si scopre che a ucciderlo sono stati due giovani su uno scooter vicino al teatro dove all’ epoca era in scena la sua ultima rappresentazione teatrale antimafia dal titolo l’Ultima Violenza, incentrata sul rapporto tra mafia, politica e Stato.
Ci vogliono nove anni per arrivare al processo e ciò avviene grazie alla collaborazione del pentito Maurizio Avola, che afferma che il mandante dell'omicidio era stato il boss mafioso Nitto Santapaola, in collaborazione con gli imprenditori catanesi.
Il processo dura poi due anni e al termine di questo, il pentito chiede alla famiglia un ringraziamento.
“A che serve vivere, se non c’è coraggio di lottare?”
peppino IMPASTATO
Radio aut: onda pazza
Egli crea a Cinisi una radio libera, che diventa famosa anche nei dintorni, e che si focalizza essenzialmente sull'impegno antimafia.
Questo lo porta a scontrarsi col boss del paese, Gaetano Badalamenti, detto don Tano, un "uomo d'onore".
Peppino non si schiera solo contro la mafia
Egli è coinvolto in numerose manifestazioni politiche, ad esempio contro la guerra in Vietnam, di notte dorme nelle università occupate e di giorno partecipa alle lotte contadine.
Dopo avere conosciuto il fondatore di una sezione del Partito Comunista Italiano, frequentandolo e apprezzandone l'impegno decide di schierarsi politicamente sempre dalla parte del popolo.
la parola chiave è comunicazione
Viene perciò ripudiato dal padre e più in generale dall’intera famiglia, lascia casa, per tornarci saltuariamente su richiesta della madre Felicia, l’unica a schierarsi sempre dalla sua parte.
Don Tano controlla l’aeroporto di Palermo a Punta Raisi, oggi dedicato a Falcone e Borsellino, e gestisce un importante traffico di eroina proveniente dalla Turchia e dirottato verso gli Stati Uniti. A causa di ciò, è perennemente ricercato dalla polizia e tende a rifugiarsi puntualmente a Cinisi.
Nel paese però Peppino prosegue nella sua lotta contro la mafia e questo spinge il boss mafioso a voler difendere la sua (pseudo)onorabilità agli occhi degli altri affiliati mafiosi.
9 maggio 1978
La morte
Nello stesso giorno in cui le Brigate Rosse fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro, segretario nazionale della Democrazia Cristiana, viene ritrovato morto Peppino Impastato, ma nessun corpo su cui piangere.
I suoi brandelli, causati dallo scoppio di una bomba di tritolo da 5 kg, sono dispersi ovunque sui binari della ferrovia. Sulla scena del crimine, anche una pietra sporca di sangue.
Ci vuole parecchio tempo affinché i carabinieri inizino effettivamente ad indagare sull'omicidio e questo prova fin da subito il desiderio di insabbiare l'inchiesta.
Si inizia addirittura a pensare che Peppino sia un terrorista e che, preparando un attentato, a causa di un suo errore la bomba gli sia esplosa tra le mani, causando la sua morte.
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