Roma, Collegio S. Giuseppe - Istituto de Merode – Ore 17:00
Erano trent’anni che Irma ripeteva gli stessi movimenti. Ogni giorno, dopo che i ragazzi avevano lasciato gli edifici lei apriva la porta dello sgabuzzino, prendeva il carrello delle pulizie e iniziava metodicamente il suo lavoro dal basso. Anche quel giorno aprì la porta in legno e vetro accanto alla guardiola e si diresse a destra nel lungo corridoio che conduceva alla grande sala. Senza neanche guardare cominciò a pulire il pavimento. Il suo era ormai quasi un riflesso involontario eppure qualcosa aveva interrotto quel movimento.
Il silenzio che permeava la scuola fin dentro alle mura fu interrotto dal suo grido.
Roma, Via del Corso - Ore 21:00
Non era certo una serata per perdite di tempo, quella. Il vento spingeva la pioggia contro le vetrine producendo un sordo ticchettio, e la pioggia, allora, rispondeva a quel suono malinconico con scrosci irregolari. Le luci dei lampioni si rifrangevano nell’acqua delle pozzanghere creando un’atmosfera chiaramente autunnale, nonostante mancassero alberi dalle foglie caduche a testimonianza del fatto. Ogni cosa in quella via era congelata in quel frammento infinito di tempo. Nello stesso momento quel paesaggio riusciva a rinchiudere la freddezza del passato e il calore bruciante di un presente troppo impegnato, descritto dal muoversi frettoloso dei piedi dei passanti. Le loro figure si muovevano spedite, senza lasciare tempo ai loro volti di rimanere impressi su queste pagine. Un solo uomo aveva accettato l’inevitabilità di quel temporale, e se ne stava fermo in un angolo. Era alto, col fisico di chi lavora d’ingegno più che di forza, ma comunque con un portamento signorile. Stava dritto, con lo sguardo proiettato lontano, indossando con un’eleganza innata il suo trench di foggia classica e blu notte -portato rigorosamente col bavero alzato, sotto al quale si intravedeva un maglione a collo alto color panna- e il suo borsalino. Quello, in realtà, era forse più un vezzo per mascherare una lieve stempiatura resa evidente dai capelli corvini, che creavano contrasto con la carnagione chiara la quale, però, metteva in risalto gli occhi di un blu profondo sottolineati dalle folte sopracciglia che rendevano il suo sguardo intenso e scrutatore. Nulla infatti sfuggiva alle sue occhiate taglienti e austere, che mettevano a disagio chiunque osasse sfidarlo guardandolo direttamente. Era severo e rigoroso con se stesso e con gli altri e il suo portamento non lasciava adito ad errori di interpretazione nel cercare di individuarne l’indole.
L’irruenza dell’acqua aveva creato un flusso che scorreva ora sul bordo della strada, a pochi centimetri dai piedi dell’uomo che nel frattempo si era riparato sotto l’ingresso di un negozio per approfittare delle luci delle vetrine ancora accese . Tirò fuori dalla tasca il suo tagliasigari in argento e la custodia in pelle dei suoi amati Toscani. Ne tagliò uno, se ne portò alla bocca una metà e la accese con calma e concentrazione, come se nulla potesse in quel momento distrarlo. Accertatosi che tirasse bene, si rilassò.
L’odore acre del fumo si mescolava a quello dell’asfalto bagnato. Nulla avrebbe potuto disturbare l’uomo che sembrava quasi cercare di nascondersi all’interno di quella nuvola grigiastra che fuggiva verso il cielo unendosi alla pioggia sottile in una danza di spirali, quasi come se volesse negargli il diritto di stare da solo.
L’odore acre del fumo si mescolava a quello dell’asfalto bagnato. Nulla avrebbe potuto disturbare l’uomo che sembrava quasi cercare di nascondersi all’interno di quella nuvola grigiastra che fuggiva verso il cielo unendosi alla pioggia sottile in una danza di spirali, quasi come se volesse negargli il diritto di stare da solo.
L’uomo ebbe il tempo di fare solo la prima boccata, quando lo squillo del suo telefono lo interruppe.
"Pronto" disse, attendendo una risposta. "Edoardo Guenzi?". "Sì…?". "Sono Michele Guarnerio, Frère Michele, ti ricordi di me?. Ho bisogno di te… è successo una cosa all’interno della scuola… avrei bisogno del tuo aiuto, subito".
"Sì, mi ricordo di lei", ebbe un attimo di titubanza.
Mille immagini si accavallarono nella sua mente, mille emozioni si rincorsero nel suo cuore. Quanta amarezza gli era rimasta in bocca per il modo in cui quella scuola aveva dovuto lasciarla, accusato di una colpa non sua, vittima di una decisione che aveva subito con dignità anche se aveva cercato in tutti i modi di dimostrare la sua innocenza. Si era ripromesso che non sarebbe mai più tornato in quel posto, ma la voce disorientata di Frère Michele, l’unico che aveva creduto nella sua innocenza, lo convinse a rispondere a quella richiesta di aiuto.
"Arrivo subito". Disse cercando di nascondere la sua insicurezza con un tono risoluto.
"Entra dall’ingresso secondario, per favore".
"Certamente, mi ricordo…".
Si strinse nel suo trench e cominciò a camminare in modo automatico sotto la pioggia; i pensieri andavano e venivano ad ogni falcata, allontanandosi per poi ritornare veementi come le onde che si infrangono sul bagnasciuga quando il mare è grosso.
Imboccò via del Babuino, arrivò all’incrocio con via Alibert e girò la testa verso il fondo della stradina, dove lo aspettava il grande cancello in ferro della scuola che per tanti anni lo aveva visto crescere. Quante volte era passato attraverso quel varco, temendo giornate di pena all’ingresso e tirando un sospiro di sollievo all’uscita per un successo ottenuto o un’interrogazione scampata.
Si fermò un attimo prima di chiamare il Frère per farsi aprire.
Ripensò a quando, con la testa bassa per il senso di umiliante impotenza e i pugni chiusi per la rabbia di aver subito una profonda ingiustizia, aveva oltrepassato quello stesso cancello per l’ultima volta, lasciandosi alle spalle un’esperienza che lo aveva formato, nonostante il suo epilogo, come persona e come studente.
Non era un caso che da quel momento in poi tutto il suo percorso di vita era stato mirato alla ricerca della verità, sempre e in ogni caso. Gli studi di giurisprudenza prima, poi la specializzazione in criminologia negli Stati Uniti e la scelta di passare la propria esistenza scrutando in quella degli altri, alla ricerca di elementi e indizi che potessero aiutare i suoi clienti a non subire l’onta di accuse infamanti e difficilmente confutabili senza il suo aiuto. Investigatore. Un mestiere dal fascino d’altri tempi, vintage, demodé. Eppure ancora ricercatissimo da chi non vuole rendere pubbliche le sue difficoltà, da chi vuole condurre le proprie delicate vicende nel massimo della riservatezza. E non c’è dubbio che Edoardo, col suo stile fuori dal comune, era sicuramente divenuto uno dei professionisti più talentuosi in questo settore.
Aveva lasciato che il suo Toscano, che lo aveva consolato per tutto il tragitto, si spegnesse lentamente. Tirò un lungo respiro cercando calma e concentrazione e varcò quella soglia ancora una volta. Il Frère lo aspettava osservando solenne il cancello dalla cima della scalinata principale. "Eccoti, dopo tanto tempo. Avrei sempre voluto chiamarti, ma qualcosa mi ha trattenuto nel corso di questi anni. Ho seguito i tuoi successi passo dopo passo e sono convinto che tu possa aiutarmi a venire fuori da questa tempesta che sta per travolgerci".
"Cosa è successo di tanto grave che non potesse aspettare domattina?", chiese allora Edoardo.
"Vieni".
Le luci erano spente, solo quel fioco bagliore che proveniva dall’esterno attraverso le grandi finestre permetteva di individuare a grandi linee le caratteristiche di quell’ambiente; con quel buio nessuno che non fosse familiare e confidente con quei luoghi e quegli spazi si sarebbe potuto minimamente orientare.
"Non posso accendere le luci , attirerebbero l’attenzione di qualcuno a quest’ora di notte", disse Fr. Michele.
Edoardo, allora si fece luce col telefonino, vagando con lo sguardo per la stanza alla ricerca del qualcosa da notare finché la luce non si spostò in basso.
Un brivido gli corse lungo la schiena, girò istantaneamente lo sguardo verso Michele che ricambiò l’occhiata senza dire nulla.
Ai piedi della tromba delle scale giaceva, riverso bocconi sul marmo, un Frère dai capelli bianchi.
"È Saturnino", disse Michele, "ti ricordi di lui?".
Certo che si ricordava. Era stato il suo insegnante di latino, che gli aveva trasmesso il suo amore incondizionato per il libri antichi. Più erano polverosi e più riteneva che avessero qualcosa da dire, che fossero custodi di segreti da svelare solo a chi li avesse trattati con amore e rispetto, a chi si fosse reso disponibile ad ascoltare le loro storie.
Quell’immagine lo lasciò per un attimo annichilito.
"Perché è ancora così? È stato un incidente? Perché non avete chiamato la polizia o un medico legale?", chiese sbalordito.
"Là per là ho pensato che si trattasse di un incidente. Poi ho trovato tra le sue dita questo", disse Michele porgendogli un pezzo di carta ingiallita.
Sembrava solo un pezzo di una pagina di un libro, nulla che non fosse coerente con l’ipotesi di un incidente vista la passione di Saturnino per i testi antichi.
"Avreste dovuto chiamare la polizia. Io mi occupo di crimini seri, non di banali incidenti".
"Non ti ho detto tutto".
“Qualsiasi cosa debba dirmi dovrà aspettare”, e così dicendo Edoardo si infilò la mano in tasca e prese il cellulare. Stava per far partire una chiamata quando Michele, in un brusco modo che non si addiceva al suo carattere, lo afferrò per il braccio e con l’altra mano gli tolse il telefonino. “Non hai capito, c’è dell’altro!”.
“Cosa, cosa che non possa passare in secondo piano di fronte ad un cadavere?”.
“Negli ultimi tempi Saturnino era molto cambiato. Se ne stava chiuso nella biblioteca senza più uscire per ore, si faceva addirittura portare da mangiare lì dentro. Era diventato cupo, taciturno, sospettoso, irascibile, scontroso. Abbiamo pensato che non stesse più bene, che qualche malanno dovuto all’età stesse avendo la meglio sul suo corpo fragile, abbiamo cercato di farlo visitare da un medico ma non voleva vedere più nessuno, è stato impossibile. Non era più lui”.
Edoardo, senza dire niente, compose il numero.
L’ispettore Abrami, vecchia conoscenza di Edoardo, guardava la scala che saliva al primo piano ai piedi della quale giaceva ancora il corpo. La scientifica stava facendo i rilievi.
Il corpo del povero frère Saturnino giaceva in una posizione infame, supino, con il braccio destro schiacciato sotto la schiena e il sinistro disteso lungo il busto con la mano semichiusa; le gambe erano flesse e si ricongiungevano all’altezza delle caviglie come a formare un rombo; la testa era riversa all’indietro, gli occhi aperti e la bocca spalancata. La pelle del volto cerea aveva trasfigurato la grande vitalità di un uomo alla immobilità di un oggetto.
Abrami non era un uomo che gradiva interferenze nel suo lavoro e non amava ficcanaso. “Guenzi, come mai qui? Nessuna moglie infedele da pedinare?” chiese, non facendo nulla per nascondere un ghigno sdegnato sul volto.
“Conoscevo la vittima, conosco Frère Michele, era la mia scuola. Potrei darle una mano se lo ritenesse opportuno. Ma qualcosa mi dice che lei voglia condurre le indagini da solo”.
“Ha detto bene, Guenzi, stia fuori dai piedi, stia lontano dalla mia ultima fatica. Tra un mese, poi, col mio successore potrà collaborare quanto vuole”.
“Starò lontano da lei, Abrami, e neanche con tanto dispiacere, ma non potrà impedirmi di farmi delle idee mie al riguardo”.
La biblioteca nella quale Saturnino trascorreva tutto il suo tempo era imponente. Volumi ordinati si rincorrevano sugli scaffali delle grandi librerie e ti guardavano dall’alto, ognuno cercando di attirare la tua attenzione. Saturnino li amava, ci parlava, li curava come figlioli. In mezzo alla sala la sua scrivania, piena di appunti, fogli scritti con la sua bella calligrafia che riportavano pensieri, idee, commenti. Tutto era stato scansionato dagli agenti di Abrami, i quali avevano portato via ciò che ritenevano inerente all’indagine e lasciato quello che non lo era. Senza rispetto per la materia viva che maneggiavano, avevano ributtato alla rinfusa ciò che rimaneva di quello splendido e complesso essere umano.
La sua agenda, quella non c’era più. Edoardo aveva fatto in tempo a fotografare le pagine in cui erano annotati degli appuntamenti, orario scritto a penna sulla data evidenziata. 08 marzo alle 09:10, 09 marzo alle 19:20, il 10 aprile alle 9:10, il 12 aprile alle 20:30. Ma mai era riportato il nome della persona con cui si era visto.
Perché degli appuntamenti segnati su una agenda se Frère Michele aveva detto che si rifiutava di vedere chiunque? E il telefonino? Non c’era più. Nessuno lo aveva trovato. Lo aveva perduto? Una persona anziana e che dà segni di confusione mentale potrebbe averlo messo ovunque.
Edoardo fece chiamare Irma, l’unica persone che si era presa cura di Saturnino nell’ultimo periodo, l’unica che Saturnino ancora tollerava.
“Era diventato così sospettoso, burbero, impaurito da tutto ciò che si trovasse al di fuori di questo suo luogo. Non rispondeva più neanche alle chiamate; anzi, per qualche giorno il cellulare era rimasto sulla scrivania a squillare invano, poi lo aveva fatto sparire. Avevamo tutti pensato all’Alzheimer, alla demenza senile, a qualche brutto male… però tutto era iniziato da una visita che aveva ricevuto.”.
“Una visita? Di chi? Quando?”, disse Edoardo.
“Un paio di mesi fa, all’inizio di marzo. Me ne accorsi perché era tardi; ero alla fine del mio solito giro di pulizie, di solito mi lascio la biblioteca per ultima, quando sono quasi sicura che non ci sia più nessuno al suo interno che io possa disturbare.
Bussai e non ebbi risposta; allora entrai e lo vidi in compagnia di un uomo”.
“Lo riconobbe? Come era?”.
“No, era una persona che non avevo mai visto, sulla quarantina, distinto, non lo vidi in viso perché era leggermente girato, mentre Saturnino era rivolto verso l’ingresso. Io chiesi scusa, ma per la prima volta lui si rivolse a me in modo aggressivo; mi disse di uscire subito e che mi avrebbe richiamata lui stesso quando il suo ospite avrebbe lasciato la stanza. Ci rimasi male, ma pensai che forse qualcosa di personale lo avesse turbato assai, era tanto buono Frère Saturnino, era tanto caro”.
“Lei è sicura che non sarebbe in grado di riconoscere questa persona?”.
“Si, non l’ho visto in volto, le ripeto”.
“E quando è rientrata come si è comportato con lei?”.
“Non mi ha dato spiegazioni. Il giorno dopo mi ha chiamata e mi ha detto che non sarei più dovuta entrare nella biblioteca, per nessuna ragione. Si fece portare delle coperte e dei cuscini e da quel momento rimase lì dentro, a dormire sul divano”.
E allora quegli appuntamenti segnati sull’agenda e che apparentemente avrebbero dovuto seguire quello con l’uomo misterioso quando erano stati presi, e con chi, e come, visto che non aveva più la possibilità di avere contatti con l’esterno?”.
A Edoardo tornò in mente il cadavere di Saturnino: la giacca pesante che indossava non era giustificata né dalla temperatura interna alla biblioteca né da quella esterna. Come se fosse rimasto fermo per tanto tempo nella stessa posizione e avesse iniziato a sentire freddo per l’immobilità prolungata. Non era solo chiuso nella biblioteca, ma era quasi di guardia a quella stanza. C’era qualcosa che lo tratteneva lì dentro impedendogli di allontanarsi anche solo per pochi minuti. Ma allora perché aveva sentito la necessità di uscire proprio quella sera per poi ruzzolare maldestramente per le scale? Quale elemento era stato tanto più importante di quello che lo tratteneva da giorni all’interno di quella che egli stesso aveva deciso essere la sua prigione? L’unica compagnia che Saturnino si era concesso era quella di Cagliostro, un gattone Maine Coon dal pelo rossiccio che gli era stato regalato tempo prima. Anche Cagliostro non si era mosso da lì, ma non poteva certo raccontare quello che aveva visto, nonostante fosse un testimone certo dei fatti.
Apparentemente non c’era nulla che non portasse sulla strada dell’incidente, del deperimento repentino di un uomo anziano che si era abbandonato al tempo che scorre inesorabile.
La stessa conclusione la raggiunse anche l’ispettore Abrami, il quale decise che era ora di chiudere un caso che non meritava altre attenzioni e altri minuti preziosi. Era alla ricerca del caso eclatante che facesse concludere la sua carriera con un successo memorabile.
“Non insista, Guenzi. Il caso è chiuso, punto. Il poveretto aveva intrapreso una china discendente, un declino fisico e mentale che lo aveva distaccato dalla realtà facendolo sprofondare in uno stato di prostrazione tale da procurargli manie di persecuzione, paure, insicurezze che lo avevano fatto rifugiare nell’unica parte di quel luogo in cui potesse ritrovare se stesso e il suo passato, la biblioteca appunto. È un profilo che coincide con una miriade di disturbi dovuti alla sua età avanzata, magari ad un trauma, magari ad un disturbo fisiologico come una piccola ischemia, un ictus”.
“Perché non ha disposto un’autopsia, allora, per toglierci ogni dubbio?”.
“Mi stupisco di lei, Guenzi. Dice di essere profondamente legato a questo luogo e a quest’uomo e pretenderebbe che ne offendessi il corpo con una pratica del tutto inutile? Perché insiste? Cosa c’è di così maledettamente ovvio che non riesca ad entrare in quel suo contorto cervello? Sempre alla ricerca della soluzione sensazionale, lei, a qualsiasi costo. Le ho detto che mi stupisce, ma in realtà il suo atteggiamento, ripensandoci, non mi stupisce affatto. Tipico di chi fa il suo mestiere.
Rimango sulle mie decisioni, non ritengo andare oltre con le indagini che, per mio conto, non avrebbero neanche dovuto iniziare”.
“Mi rimetto alla sua decisione, Dottor Abrami – sottolineando quel “dottore” con enfasi caricaturale- e le auguro di trovare, in questo mese che le rimane, quel delitto sensazionale di cui occuparsi che, evidentemente, collide con quello che lei stesso accusa me di voler scovare a tutti costi. Quindi, comunque, le nostre strade si ricongiungeranno, arrivederci”.
Edoardo non si dava pace. Continuava a gironzolare per quella stanza dalla quale la vita se ne era andata e si guardava intorno. Libri, libri, libri. Ordinati sugli scaffali, impilati sui mobili, a terra. Coste dai colori vividi, o più spesso sbiaditi dal tempo, con inserti in oro a sottolineare la cura con cui erano stati rilegati in tempi passati, preziosissimi cimeli di un tempo che fu, custodi di pensieri altrui che il Frère aveva fatto suoi. Sul divano color oro c’era ancora, ben piegato – forse Irma in un gesto di affettuosa pietà lo aveva così sistemato - il pesante plaid a scacchi nel quale Saturnino, infreddolito, si raggomitolava. Cagliostro lo fissava curioso con la folta coda che penzolava giù dalla scrivania. Si spostava con accurata delicatezza posando le zampe tra le carte del Frère, non facendole muovere neanche di un millimetro.
Edoardo si sedette sul divano, cercando di immaginare i gesti di Saturnino in quella stessa posizione, si tolse le scarpe, si adagiò sul fianco, poggiando la testa sul bracciolo duro e si coprì con il plaid. Cagliostro gli si adagiò accanto, infilandosi tra la sua schiena e il rigido divano, regalandogli un tepore piacevolissimo alle spalle. Così, si addormentarono.
Dopo un indeterminato lasso di tempo Edoardo venne svegliato da uno scricchiolio. Aprì gli occhi con difficoltà, cercando di trovare nel buio la provenienza del rumore. Allungò la mano dietro la schiena e si rese conto che il gattone si era volatilizzato. Forse la causa del rumore era lui. Poi, mentre prendeva lucidità a fatica, vide un fascio di luce bianca che si muoveva ondeggiando prima verso il pavimento e poi verso gli scaffali. Edoardo, allora, si alzò di scatto e senza infilarsi le scarpe si mosse verso la direzione della luce. Intravide allora una figura scura che aveva appena oltrepassato la soglia della biblioteca. Se la lasciò passare sulla sinistra e, appena quella gli porse le spalle, le afferrò il braccio sinistro – con la cui mano la figura impugnava la lampada - e le cinse il collo col suo braccio destro. La figura, però, reagì prontamente, mosse la testa indietro e colpì Edoardo sulla fronte e sul naso provocandogli un dolore lancinante, si divincolò e corse via da dove era venuta. Edoardo rimase per qualche istante immobile, poi partì all’inseguimento con difficoltà, perché nel corridoio era buio pesto.
“Il bastardo conosce bene la strada”, pensò…
Edoardo era in bagno, in piedi davanti al lavandino e si tamponava il naso con un asciugamano intriso di acqua ghiacciata. L’acqua scorreva. Si guardava allo specchio e si chiedeva come avesse fatto a farsi scappare quel delinquente. Michele lo scrutava attraverso l’immagine riflessa, imbarazzato perché percepiva il disagio per la sconfitta e l’umiliazione subite da quello che ormai considerava più un amico che un vecchio studente, cercando di comprendere cosa gli stesse passando per la testa. Rabbia? Frustrazione? O stava già provando a mettere insieme i pezzi degli avvenimenti che si erano succeduti nei giorni e nelle ore precedenti?
"Tutto questo non ha senso, Michele. È fin troppo ovvio che non possa trattarsi di una coincidenza; sapeva dove andare, sapeva come muoversi, sapeva cosa cercare. Non riuscivo ad orientarmi io, in quel buio. Eppure quel topo maledetto si destreggiava come un pipistrello tra gli ostacoli. Cosa stava cercando… cosa…?
Sei sicuro che nulla sia stato toccato? Che nulla manchi? Ci sono cose di valore qui dentro?".
"No, Edoardo. Abbiamo controllato noi, hanno controllato gli uomini di Abrami. Non abbiamo tesori, niente per cui valga la pena rischiare.".
"Scusa Michele, e quei quaderni di Trilussa di cui sentii parare quando frequentavo questa scuola? Che mi dici di quelli?".
"Sì, esistono; ma sono solo dei quaderni di un giovane studente ribelle che ancora si chiamava Carlo Alberto Salustri; raccolte di esercizi, disegni di un bambino che ha lasciato questa scuola a quindici anni. Non certo manoscritti del Trilussa più famoso. Hanno un valore simbolico, affettivo, didattico direi".
"Dove sono custoditi?".
"In un armadio che rimane sempre chiuso a chiave. Ma ti ripeto, in questa biblioteca ci sono volumi antichi dal valore infinitamente più alto dei quaderni di Salustri che non sono stati toccati. Non c’era un solo posto vuoto sugli scaffali al momento del fatto. Credo, sinceramente, che tu stia imboccando una strada sbagliata. Comunque controlliamo".
Le chiavi dell’austero armadio blindato in mogano erano custodite in doppia copia: una da Saturnino - che teneva sempre con sé - e una da Michele nel suo ufficio. Erano una miriade di ferraglie; chiavi di foggia diversa fra loro, che da centosettanta anni, quando il San Giuseppe De Merode era ancora la école française di Palazzo Poli, tenevano al sicuro gli oggetti e i documenti più importanti dell’antica costruzione.
La copia di Michele era sempre stata al suo posto e quella di Saturnino era nella tasca dei suoi pantaloni al momento della tragedia.
Edoardo sentì i passi di Michele che si avvicinavano e si portò davanti al mobile. Era un cassettone alto, con tre cassetti nella parte inferiore e uno sportello a ribalta in quella superiore; l’anta a ribalta era chiusa con una grande serratura la cui toppa aveva forma di pentagono. Michele infilò la chiave corrispondente e la girò verso sinistra; la ribalta si aprì e mostrò una serrandina a doghette di legno che celava il contenuto del secretaire. Edoardo alzò lo scorrevole e comparve una elegantissima parete di ferro intarsiato, ornata da cerniere decorate da motivi floreali delicatamente cesellati da mani esperte e raffinatissime. Allora Michele prese un altro arnese dal mazzo delle chiavi, lo infilò in una fessura e fece scattare una delle cerniere sotto alla quale comparve un ulteriore chiavistello a forma di quadrato. Il frère prese la chiave giusta e la girò quattro volte verso sinistra. Un’altra cerniera fece un sordo clac e Michele infilò un nuovo buffo ferro nella toppa corrispondente. Girò anche questa, stavolta sei volte a destra ed ecco che il primo dei cassetti sottostanti fece un sussulto in fuori.
Michele afferrò i pomelli e tirò: vuoto. Il cassetto era vuoto.
Il povero Michele perse ogni colorito dal volto, si appoggiò con la mano sinistra alla parete e con la destra si sfilò gli occhiali e si asciugò la fronte.
"Non è possibile". Disse balbettando. "non è possibile. Le chiavi sono sempre state al loro posto, non ha senso. Perché rubare questi oggetti quando molto altro avrebbe fatto gola ad un ladro a caccia di guadagni facili? È una storia assurda, un danno enorme per l’immagine della scuola".
"Ogni quanto controllavate questo forziere? Chi aveva accesso al suo contenuto oltre voi due?".
"Non c’era motivo di aprirlo spesso. Lo facevamo saltuariamente per verificare che la carta dei quaderni fosse in un buono stato di conservazione, che non ci fosse umidità all’interno. Ma non così spesso. E non c’era nessuno oltre a noi due in grado di poterlo aprire. È un meccanismo così vecchio che sfido ci siano ancora persone in grado di riuscirci. Non capisco"…
"Quanti erano i quaderni di Salustri?".
"Quattro, solo quattro".
L’Ispettore Abrami camminava su e giù nervosamente per il corridoio che porta alla biblioteca.
"Eccola qui, Guenzi. Avevo la certezza che avrebbe creato qualche altro problema. Ha fatto la descrizione dell’intruso che l’ha aggredita ai miei uomini? A contribuito a farne un identikit corrispondente?". E sghignazzando aggiunse "devo dire che comunque l’aggressore misterioso ha fatto un gran bel lavoro!" indicando il naso tumefatto di Edoardo e non nascondendo una infinita soddisfazione e una sorta di malevola riconoscenza per il colpo inferto all’investigatore.
"Allora Guenzi, non c’è molto da dire, non mi sembra un caso così complesso. Non le sembra? Mi auguro vivamente che lei sia d’accordo con me: Probabilmente il ladro, che forse conosceva questo ambiente, si è introdotto la prima volta nell’edificio; magari ha obbligato il povero Saturnino ad aprire la cassaforte, c’è stata una colluttazione con finale tragico. Del resto il pezzetto di carta che abbiamo ritrovato nella mano di Saturnino lo confermerebbe. Poi il ladro ha pensato che ci fosse altro da prendere ed è tornato qui ieri sera non immaginando di trovare lei. Gli assassini tornano sempre sul luogo del delitto, si sa".
"Come intende procedere, Ispettore?", chiese Edoardo scettico sulla affrettata conclusione di Abrami e cercando di trattenersi dal rispondere a tono alle pungenti provocazioni del poco arguto ispettore.
"Ah beh, è facile. Faremo un giro tra i negozi di antiquariato della zona; sono sicuro che il ladro sarà uno scriteriato, magari una nostra vecchia conoscenza nel settore, che avrà già provato a piazzare la merce; lo prenderemo presto, sono sicuro. È un ambito ristretto quello in cui muoversi, ne stia certo”.
Edoardo non era così certo della semplicità del caso. Non trovava logico che il ladro avesse ucciso per degli oggetti dal valore relativo. Neanche per spavento di fronte ad reazione non prevista e scomposta di Saturnino.
Il frère era un uomo gracile, debole; cosa avrebbe mai potuto fare per suscitare una risposta tanto violenta?
La figura con cui Edoardo si era scontrato era preparata e sapeva come muoversi. Il suo profilo non corrispondeva con quello di un ladro dilettante o comunque non era compatibile con quello di un malvivente occasionale. Si era organizzato prima o eseguiva le direttive di qualcuno più scaltro e preparato di lui.
C’erano troppi elementi che non coincidevano totalmente con l’ipotesi di Abrami.
Abrami aveva sguinzagliato i suoi uomini a cercare argomentazioni mirate a confermare la sua teoria in tutti i negozi di antiquariato di storica fama, dai rigattieri, dai restauratori e presso chiunque avesse a che fare con antichità varie nella zona. L’ispettore stesso si era recato in un paio di eleganti atelier di vecchiariato le cui vetrine affacciavano sulle strade del centro storico.
Era entrato anche in una splendida casa d’aste di rinomata notorietà che accoglieva la sua clientela in un salone arredato con mobili di rara bellezza, arazzi preziosi alle pareti, soprammobili pregiatissimi provenienti da tutta Europa. Ad accoglierlo fu il Sig. Owen Thorpe, un aristocratico ed elegantissimo gentiluomo di origini britanniche che viveva nel nostro paese da decenni e che si era perfettamente adattato al nostro stile di vita. Il sig. Thorpe era stato affabile, si era mostrato estremamente interessato alla storia e si era reso disponibile a collaborare con Abrami interessandosi lui stesso di cercare notizie al riguardo nell’ambiente delle aste private.
Nel frattempo Edoardo si muoveva in maniera autonoma conducendo un’indagine parallela partendo dal presupposto che devono essere gli elementi a offrirti delle basi su cui fondare un’ipotesi, contrariamente a come stava facendo Abrami il quale, avendo stabilito quale fosse la più probabile dinamica degli avvenimenti, stava invece cercando forsennatamente di incastrare i tasselli a tutti i costi per confermare la sua teoria.
Le conoscenze di Edoardo nel “sottobosco” della Roma notturna erano molte. Si trovava a proprio agio tra personaggi sfuggenti, dal passato e dal presente ambiguo, che vivevano alla giornata galleggiando nella palude della malavita a vari livelli.
Informatori, insomma. Galoppini al soldo di questo o quest’altro padroncino, voltagabbana occasionali. Poi c’erano i "suggeritori puri", quelli che assistevano agli eventi loro malgrado, magari perché erano costretti a passare la notte all’addiaccio perché privi di un riparo sicuro; poveri esseri che godevano di tutto il rispetto di Edoardo il quale cercava di aiutarli come poteva quando era costretto a ricorrere a loro durante qualche indagine. Edoardo, infatti, non amava sfruttarli perché temeva di esporli troppo alle ritorsioni della pericolosa feccia che di notte si aggira per la capitale.
Dopo tante ore passate a parlare con i più sgradevoli e equivoci personaggi, Edoardo si imbatté in un senzatetto che spesso la notte si aggirava nei dintorni della scuola.
Era quasi ora di coricarsi per il pover’uomo che stava sistemando le sue poche chincaglierie attorno a sé; Edoardo si avvicinò a lui con una coperta in mano, gliela porse e gli chiese se poteva fargli qualche domanda.
"Sì, rispose l’uomo. Non è facile che qualcuno mi parli così".
"Non voglio darle fastidio, ho solo bisogno di sapere se ricorda di aver visto qualcuno scavalcare questo cancello la notte scorsa".
"Chi sei tu, un poliziotto?", chiese l’uomo.
"No, sono quello a cui la persona che ha scavalcato il cancello ha fatto questo bel lavoro sulla faccia… e aggiungo anche che un poliziotto di mia conoscenza è molto felice della cosa", disse Edoardo strappando un sorriso al senzatetto.
"Mi sei simpatico – disse l’uomo – sei gentile. Ti risponderò… Si. Ho visto chi ha scavalcato e so anche chi è".
"Ne sei sicuro? Avevi bevuto?".
"Sì, ma non abbastanza da non rendermi conto di quello che succedeva. Non so il nome, so solo che è uno che la notte gira da queste parti. Uno scapestrato, che fa lavoretti saltuari, ogni tanto consegna cose, anche cose poco pulite, ogni tanto lava i vetri dei negozi… uno così, insomma. Spesso si viene a sedere qui vicino a me con una bottiglia in mano e mi racconta delle cose senza senso. È uno che per qualche soldo sarebbe capace di fare qualsiasi cosa".
"Hai detto di non sapere il suo nome, ma sai dove posso trovarlo, puoi almeno descrivermelo?".
"E’ un tipetto con i capelli scuri, lunghi, mingherlino, cammina tutto storto. Mi ha detto solo che abita in una stanzetta sopra a un negozio di spezie a Piazza Vittorio, non so altro".
Edoardo appoggiò la schiena ad una delle colonne del porticato. Piegò la gamba destra e mise la suola contro il marmo del piedistallo. Tirò fuori dalla tasca il suo mezzo sigaro già tagliato e lo portò alla bocca.
Lo accese con calma, emise un cerchio di fumo che si librò nell’aria; sospirò, si aggiustò il cappello. Si stava guardando intorno quando sentì aprirsi la serratura del vecchio portone malandato che si trovava davanti a lui; si affacciò una donna che tentava di spingere fuori dalla pesante anta in legno verniciato di verde un passeggino con un bimbo paffuto che dormiva coperto con un panno sdrucito; la donna faceva una certa fatica a effettuare la manovra con una sola mano e allora Edoardo gettò via il sigaro e balzò verso di lei afferrando il pomello d’ottone e permettendo alla signora di uscire comodamente. Al "grazie" della donna Edoardo rispose un veloce "non c’è di che" mentre scivolava all’interno dell’androne con una velocità fulminea.
Salì tre rampe di scale e si fermò davanti ad una porta anonima; un pezzo di nastro isolante nero copriva il nome del vecchio inquilino e mostrava che il nuovo non avesse alcuna intenzione di comunicare la sua presenza, esattamente come aveva detto il senzatetto la sera prima.
Bussò alla porta e si spostò sul lato sinistro. La porta si aprì leggermente e un naso adunco si affacciò precedendo un viso scarnito, emaciato, con degli stopposi capelli corvini che scendevano lungo gli zigomi sporgenti. La testa dell’uomo sporse dall’uscio e si girò a guardare dalla parte opposta a quella in cui si trovava Edoardo, ricordando una testuggine che scruta l’ambiente circostante.
Allora Edoardo, non volendo ripetere l’esperienza già vissuta con quel personaggio, non si fece cogliere impreparato stavolta; infilò un piede nella soglia, mise il braccio destro sotto il collo della testuggine e col sinistro afferrò la sua camicia denim, dandogli una forte spinta che lo buttò all’indietro e lo fece cadere all’interno dell’appartamento; poi si chiuse la porta alle spalle.
Il mezz’uomo cercò di afferrare una bottiglia dal tavolo accanto al quale era rovinato, ma l’investigatore gli saltò addosso bloccandogli il braccio con il ginocchio sinistro e facendo in modo che lasciasse la presa dall’arma improvvisata.
"Ragioniamo", disse mentre lo teneva schienato a terra in modo niente affatto gentile.
"Sai chi sono?".
"No, cosa vuoi da me?".
"Ti aiuto" disse Edoardo con atteggiamento glaciale, per nulla coerente con le parole che aveva pronunciato. "Sono la persona che ti ha mandato in fumo i piani ieri sera all’interno della scuola". E mentre parlava spinse nuovamente sul pavimento l’omuncolo che nel frattempo aveva provato a divincolarsi.
"Vedi,…. Come ti chiami?" "Stefano". "Ecco, vedi, Stefano, sei in una pessima situazione. Ti faccio un quadretto: sei un ladruncolo da quattro soldi, hai bisogno di liquidi per comperarti qualche schifezza che ti brucerai in un paio di giorni. Sei disposto a tutto. Sai che lì dentro ci sono cose di valore, magari antiche, pensi che non ci sia alcun tipo di sorveglianza; entri la prima volta nell’istituto, ti trovi davanti una persona che non ti aspettavi, la spingi per le scale, la ammazzi. Ma la facilità di intrufolarti lì dentro ti ha fatto gola e ci hai riprovato. E stavolta hai trovato me. Evidentemente è un posto che non ti porta troppa fortuna. Verrai accusato di omicidio e siccome sei un pezzente non potrai neanche permetterti un buon avvocato, sei fregato. Come sono arrivato io a te ci starà arrivando anche la polizia, non hai molte possibilità. Ora, vedi, se avessi qualcosa da dire, se la storia fosse leggermente differente, io sarei disposto ad ascoltarti e forse, dico forse, potrei fare in modo che ti ascoltasse anche il mio amico ispettore che altrimenti non sarà così disposto a venirti incontro. Sei solo; un balordo solo che non sa dove sbattere la testa… che mi dici di questa mia analisi?".
Stefano buttò la testa all’indietro e si lasciò andare. Edoardo allentò allora la presa e consentì all’omuncolo di cedere. Aveva rotto la sua resistenza e lo aveva reso ancora più fragile di quanto già non fosse.
"No, non è andata così. Non del tutto. Non sono stato io, non da solo. Non ci avrei mai pensato, non mi interessava. Quando ho bisogno di soldi rubo qualcosa qua e là, cerco di non fare neanche scippi, non mi piace fare male alla gente. Mi ci sono ritrovato. Mi ha promesso soldi, tanti soldi. Sembrava una cosa facile, dovevo entrare, prendere quei quattro maledetti quaderni vecchi e consegnarli. Che ne sapevo? Che ne sapevo che avrei trovato quello lì dentro pronto a difendersi? Che ne sapevo che avrebbe reagito così?".
"Chi? Chi è che ti ha commissionato questa idiozia?".
"Non posso dirtelo, non capisci?. Mi ha detto che conosce gente importante, che mi farà cercare se parlo".
"Ma non ti rendi conto delle assurdità che stai dicendo? Non ti rendi conto che se fosse vero quello che dici avrebbe contattato un professionista? Ha preso il primo idiota ricattabile che ha trovato, cioè te. È solo uno che non voleva fare le cose da solo, ragiona. E comunque, se fosse giusto quello che sostieni, allora saresti molto più al sicuro a Regina Coeli piuttosto che in questa squallida stanzetta dove ti può raggiungere chiunque".
"Va bene, ma devi promettermi che non mi succederà niente, né fuori né dentro".
"Parlerò con chi si sta occupando dell’indagine", disse Edoardo, non promettendo volutamente nulla di ciò che gli era stato chiesto da Stefano. Sapeva che qualsiasi richiesta fatta ad Abrami avrebbe potuto prendere una piega inaspettata.
"È stato uno che ha una galleria importante; voleva quei quaderni a tutti i costi. Gli ho detto cento volte che avrei potuto procurargli roba più importante; so di case facili lì intorno con bei pezzi interessanti, ma lui non ha voluto sentire ragioni. Mi ha promesso tanto. Poi quel maledetto mi ha detto che mi avrebbe pagato dopo la consegna, ma quando ha sentito quello che è successo non mi ha voluto dare un soldo".
"Chi è? Dai, ora sto perdendo la pazienza".
"Chiama prima i tuoi amici della polizia, non esco da qui se non con loro".
Edoardo fece il numero.
"È un inglese. Thorpe, si chiama Thorpe. L’ho visto l’ultima volta quando gli ho dato il quaderno che mi è rimasto in mano quando il prete è caduto dalle scale. Mi aveva spiegato tutto nei minimi particolari, cosa dovevo prendere, dov’era, chi aveva le chiavi di quel mobile antico e come aprirlo. Avrei dovuto entrare, costringere il prete ad aprire, prendere i quaderni e andarmene, solo questo. Invece me lo sono trovato davanti, in cima alle scale, mi ha spinto, mi ha urlato che non li avrei mai avuti; ho visto che teneva in mano un libricino che dalla descrizione che Thorpe mi aveva fatto doveva essere quello che cercavo, l’ho afferrato, abbiamo lottato e lui è caduto giù. Quando mi sono reso conto di quello che era successo sono scappato via, ho portato il quaderno a Thorpe e gli ho detto che non volevo avere più nulla a che fare con lui, e lui non mi ha pagato.".
"E gli altri quaderni? Dove sono?".
"Non ho preso altro, lo giuro!".
"Sei un bugiardo, un assassino bugiardo. La fine che hai fatto fare agli altri tre quaderni la racconterai alla polizia. Sono stato fin troppo disponibile con te, ora basta". E mentre diceva queste parole si sentì la sirena della volante che arrivava a prelevarlo.
Edoardo era seduto sulla sedia di fronte alla scrivania di Abrami.
"Ragioni, Guenzi", disse l’ispettore, "sono stato in quella galleria personalmente, ho parlato a lungo con il titolare, persona affabile e distintissima. È vero, la galleria è specializzata in manoscritti, ma il suo atteggiamento è stato meno che sospetto. Mi ha offerto tutta la disponibilità possibile, mi ha spiegato in grandi linee come funziona quell’ambiente, come reperiscono i pezzi; insomma, se avesse avuto qualcosa da nascondere avrebbe tagliato corto, mi avrebbe liquidato in breve tempo, invece sembrava quasi avesse piacere a trattenermi. Deve avere apprezzato il mio interesse per il materiale che tratta e che prescinde dall’indagine in sé. Direi che lei si è fatto circuire da un poco di buono che ha voluto tirare in ballo un nome conosciuto per sviare le indagini e alleggerire la sua posizione. Non capisco perché debba rendere le cose più complesse di quanto in realtà non siano…".
Edoardo guardava Abrami incredulo. Possibile che avesse tanta fretta di chiudere il caso pur di andare in pensione senza lasciare indagini aperte al suo successore? Voleva proprio chiudere in bellezza a costo di chiudere male? Del resto chi ci avrebbe fatto mai caso? La storia, tutto sommato, reggeva, un colpevole c’era ed era perfetto: nessuno di importante che avrebbe potuto trascinare all’infinito la cosa con l’aiuto di un pull di avvocati di peso, nessuna conoscenza altolocata, l’indagato perfetto.
"Abrami, mi scusi, ma non è neanche interessato a scoprire che fine abbiano fatto i manoscritti? Non ha prove tangibili in questo modo e comunque non restituirà mai la refurtiva all’Istituto".
"Non è un problema, Guenzi. Ormai i diari saranno passati di mano in mano almeno due volte, magari saranno già all’estero; ci penseranno i colleghi carabinieri della tutela del patrimonio artistico, sono cose lunghissime, queste; chissà quando e se salteranno fuori… allora io mi starò godendo la libertà…".
"Abrami, facciamo almeno un tentativo… non le fa gola la possibilità di assicurare alla giustizia un pezzo un po’ più grosso di quell’omuncolo senza né arte né parte? Ci pensi, non le darebbe più prestigio andare in pensione con un encomio recente?".
"Non voglio rogne, Guenzi. Ora basta, vada pure, mi auguro che lei possa andare più a genio al mio successore. Credo non le possa essere sfuggita la mia poca considerazione nei suoi confronti, questo mi premeva proprio dirglielo visto che probabilmente non ci vedremo più.".
Edoardo uscì da quell’ultimo incontro con un senso di insoddisfazione profonda; un nulla di fatto, un caso risolto a metà, una nuvola di fumo denso che nascondeva, probabilmente per sempre, la verità che si celava dietro quella serie di elementi sparpagliati. Un caso-non caso, una soluzione-non soluzione, un colpevole parziale. E una serie di insulti gratuiti e francamente eccessivi da parte di un uomo tronfio e pieno di protervia che Edoardo faticava a mandare giù.
Il senso di colpa che Edoardo provava nei confronti di Saturnino era grande, il senso di inadeguatezza che provava nei confronti di se stesso ancora più pressante. Era quello stesso dolore, quella stessa mortificazione che solo quella scuola riusciva a dargli. Il suo pensiero tornò per un istante al momento in cui si lasciò l’istituto alle spalle per l’ultima volta tanti anni prima. Il desiderio di redenzione era troppo grande. Questa era stata la sua seconda opportunità e non poteva credere al fatto di aver fallito anche stavolta. Come avrebbe potuto guardare Michele negli occhi comunicandogli la chiusura del caso? Come avrebbe dormito sereno sapendo che un colpevole, il mandante, c’era e non era stato assicurato alla giustizia?
Il mattino dopo Edoardo si alzò frastornato.
Si guardò allo specchio mentre si faceva la barba e non si riconobbe più. Poteva lasciare che le cose andassero da sole in quel modo? Poteva permettere che pur sapendo, Edoardo Guenzi non intervenisse a modo suo, autonomamente?
Aprì l’armadio, si vestì di tutto punto. Sostituì l’amato collo alto in soffice lana chiara con un completo blu notte, fece il nodo alla cravatta di Marinella a cui era tanto affezionato, si appoggiò il trench sulle spalle e si presentò all’orario di apertura sulla soglia della incriminata casa d’aste.
Spinse la porta all’interno e un trillo gradevole e un po’ retrò, in perfetta armonia con il materiale trattato nell’atelier, segnalò al proprietario l’ingresso del primo cliente della giornata.
Edoardo si presentò e venne fatto accomodare in un bel salottino con delle poltroncine anni ’50 in acciaio e pelle maculata. Tra le due poltroncine un tavolino in cristallo su cui un gentile inserviente appoggiò un vassoio con due tazzine di caffè e un piattino con dei pasticcini.
"Mi chiamo Thorpe, ho l’onore di dirigere questa azienda, come posso aiutarla, signor Guenzi?".
"La sua gentilezza mi confonde, signor Thorpe. Sono un inguaribile collezionista di libri antichi e manoscritti, sempre in cerca di novità. Credo, francamente, data la sua fama, di essere nel posto giusto". Nello sguardo infido e mellifluo di Thorpe Edoardo ebbe la sensazione di rivedere qualcosa di già conosciuto.
"È alla ricerca di qualcosa di particolare signor..?", chiese Thorpe. "Castelli, mi perdoni per la gaffe. Gabriele Castelli". Rispose Edoardo. Gabriele Castelli era il suo pseudonimo da battaglia. Amava avere un alter ego che gli rimanesse fedele, che lo accompagnasse nelle indagini più complesse.
E il suo sostituto immaginario proseguì: "Forse; ero venuto con un’idea in testa, ma ciò che vedo intorno a me distoglie l’attenzione dal mio primo obiettivo... In realtà ho un amore smodato per il materiale cartaceo; acqueforti, schizzi, anche stampe, se meritevoli di interesse. C’è stato un periodo in cui collezionavo atti giuridici, accordi commerciali, scritture notarili. Alle spalle della mia scrivania troneggia un atto di compravendita di bestiame della prima metà del XVIII secolo che ho trovato da un rigattiere dell’Aquila anni fa... A Teheran ho acquistato fogli provenienti da un quaderno di calcoli matematici databile intorno al 1600... Insomma, signor Thorpe, la mia è quasi una passione bulimica per ciò che è scritto, disegnato, ornato...".
Thorpe, immaginando di aver compreso i desideri di Gabriele Castelli, aprì un grande cassetto, ne estrasse una cartella portadisegni verde, la poggiò sul tavolo in vetro che utilizzava come scrivania. "Inizio con farle vedere qualcosa" – disse mentre scioglieva i lacci neri e apriva accuratamente il contenitore.
Edoardo lo osservava attentamente: i lineamenti nordici, la figura longilinea, i capelli mossi ormai brizzolati che tradivano un passato da biondo; gli occhi chiari dal taglio allungato, lo sguardo evasivo, mellifluo, reticente al confronto diretto.
Una ulteriore sensazione di disagio gli attraversò il corpo; quella espressione artificiosa e insincera stava sovrapponendosi a qualcosa con cui già in passato aveva avuto a che fare. Un ricordo stava ostinatamente cercando di affiorare dal tempo andato di Edoardo che, nel frattempo, era rimasto immobile ad osservare i lenti movimenti delle mani di Thorpe.
Il gallerista tirò fuori uno schizzo a matita in stile futurista aeropittorico. "Un Dottori. Un gioiello. Fa parte di una serie di studi dei quali posso reperire anche un altro paio di fogli, se è interessato". "Edoardo lo osservò non mostrandosi particolarmente preso. "Interessante, non c’è che dire. In verità immaginavo qualcosa di autografo, una lettera, una scrittura... amo il ‘900, pensa di avere nulla?".
Thorpe lo scrutò con attenzione. Edoardo cominciò a mostrarsi insofferente; si dipinse una controllata smorfia di disappunto sul volto che il suo interlocutore si affrettò a cercare di cancellare mostrandosi ancora più affettato e disponibile.
"Ci ragioni con calma, Signor Thorpe. Tornerò a trovarla", disse girandosi verso l’uscita.
E in quello stesso momento il suo sguardo cadde su uno degli scaffali che incorniciavano la porta dello studiolo in cui l’inglese lo aveva ricevuto: dietro un vaso in cristallo stava, seminascosta, una cornice con una foto in bianco e nero che aveva tutta l’apparenza di rappresentare una scolaresca. Edoardo rimase di sasso: gli studenti se ne stavano schierati sui gradini della scala esterna di una scuola che lui riconobbe fin troppo bene: la sua.
Per un attimo rimase di ghiaccio; il brivido lungo la schiena aveva raggiunto la sede dei ricordi ed era riuscito a svegliare finalmente anche quelli sopiti; spiacevoli sensazioni si accavallarono nella sua mente; si rivide per l’ennesima volta mentre lasciava la scuola alle spalle e balenò all’improvviso lui, il responsabile di quel vigliacco gesto di cui Edoardo venne ingiustamente accusato: Eugenio Santopetri, essere indegno, vile scorpione, antesignano del bullismo più becero, espulso a sua volta dopo l’accaduto, perché, non sazio dei danni già fatti, aveva rivolto le sue attenzioni su altri compagni che stavolta, però, erano riusciti a far emergere la loro verità. E quella volta frère Saturnino non aveva voluto sentire ragioni e si era mostrato intransigente con Santopetri. Lo spettro del suo attuale senso di inadeguatezza nei confronti di alcune situazioni, di quello di riscatto nei confronti della tanto amata scuola, prendeva forma, si forgiava dalla creta delle emozioni concretizzandosi nell’essere che se ne stava impettito di fronte a lui.
Lì davanti ai suoi occhi: Eugenio Santopetri, di madre britannica; Thorpe, Ewan Thorpe nella nuova vita che si era regalato.
I pezzi del puzzle si componevano nella testa di Edoardo; i sospetti trovavano concretezza, i dubbi trovavano ragione. Il passato si fondeva col presente; un cerchio, che vedeva la figura di Saturnino al centro, si chiudeva.
Rivalsa, di questo si era trattato. Questo era il movente che aveva spinto il gallerista a desiderare quei quaderni.
E gli tornarono in mente le parole del mezz’uomo Stefano, quando diceva che Thorpe, pur potendo avere altro di ben più alto valore, si era fissato con quegli oggetti; uno sfregio alla scuola, al frère che aveva sempre disprezzato la vigliaccheria, gli abusi, la superbia, la prevaricazione, la violenza.
Edoardo si riprese dallo choc e capì che aveva il colpevole a portata di mano; non poteva lasciarsi scappare questa unica occasione.
Quello che nella testa di Edoardo era sembrato un lasso di tempo lungo una vita corrispondeva nella realtà a un paio di minuti.
Nel frattempo l’ignaro Thorpe, che dall’alto della sua boria non aveva minimamente riconosciuto il vecchio compagno di scuola, temendo di vedersi sfuggire un cliente di spessore e apparentemente disposto a spendere per i suoi capricci, abbandonò le reticenze e lo richiamò: "Aspetti, signor Castelli. In effetti, avrei, anche se non ancora inventariato e, in verità, in attesa di autentica, un pezzo assai raro anche se non antico. È arrivato in atelier ieri, tramite un collega... sa uno scambio...".
"Benissimo, mi lasciava andare via così?... di cosa si tratterebbe, allora? Mi mostri questa rarità".
"Un quaderno. Si tratta di un quaderno di scuola di un non ancora famoso Trilussa. Non poesie, non sonetti, solo un quaderno di esercizi, ma assolutamente autentico. La certificazione sarà un proforma. Posso mostrarglielo?".
"Ma certamente", disse Edoardo avvicinandosi nuovamente alla scrivania.
Thorpe indossò un paio di guanti bianchi in cotone, entrò nella stanza accanto e ne uscì con il quaderno tra le mani. "Eccolo", disse "spero che questo possa soddisfare le sue aspettative".
Edoardo chiese a Thorpe di appoggiare il quaderno sulla scrivania e di sfogliarlo; voleva osservare lo stato della copertina e della costola esterna. Chiese di girarlo e aprire l’ultima pagina e osservò: "Vedo che è in condizioni perfette. Se non fosse per quel pezzo di foglio mancante... sembra quasi uno strappo recente, il colore della lacerazione non ha preso quella patina giallastra che assume la carta vecchia... un incidente avvenuto qui in atelier?".
Thorpe iniziò a balbettare. "Ma, non saprei, non mi ero accorto minimamente della questione, contatterò il mio collega...".
"Tu non contatterai proprio nessuno, Eugenio Santopetri. Verme. Sei tu che sei andato a trovare frère Saturnino per convincerlo a cederti i quaderni che ti facevano gola. Sei tu che lo hai tempestato di telefonate dopo il suo rifiuto. Sei tu che hai pagato quel poco di buono per andare a fare quello che tu stesso, che vigliacco eri e vigliacco sei rimasto, non hai avuto il coraggio di fare da solo. È a te che quel povero balordo ha portato subito i quaderni, tu sei il mandante del furto, tu sei la causa di quanto è successo”.
Alle sue parole Eugenio/Ewan trasalì... fece un passo indietro e corse verso la porta.
Edoardo si tuffò verso di lui, lo afferrò per il retro della giacca e lo atterrò. Thorpe si divincolò, si girò in posizione supina, cercò di arretrare spingendosi con le gambe verso la porta ma Edoardo gli fu di nuovo addosso e lo colpì sul volto con un pugno bene assestato. Thorpe si arrese, si sdraiò sul pavimento e rimase a guardare il soffitto senza dire una parola.
Edoardo si era liberato, aveva fatto quello che non aveva potuto fare una ventina di anni prima. Non che la sua redenzione passasse attraverso un pugno, questo no, ma sicuramente era passata attraverso la verità. E la giustizia sarebbe arrivata di lì a poco.
Mentre Edoardo guardava il gallerista piombò l’ispettore Abrami con i suoi uomini. "Guenzi, possibile mai che la trovi sempre in mezzo?".
"È possibile che lei arrivi sempre sul più bello?", ironizzò Edoardo.
"Lei non mi è simpatico ma devo ammettere che ha delle buone intuizioni, a volte. Mi sono fatto condizionare dalla nostra ultima chiacchierata e ho pensato che valesse la pena indagare oltre. Dai tabulati telefonici risulta che le ultime telefonate ricevute da frère Saturnino provenissero tutte dal numero di questo uomo di paglia che giace ai suoi piedi; caduto accidentalmente, immagino..." e si lasciò scappare un sorriso, stavolta sincero, strizzando l’occhio nella direzione di Edoardo.
Mentre gli uomini dell’ispettore portavano via Santopetri, Abrami si avvicinò. "Si lasci stringere la mano, investigatore. Posso dirle grazie, Edoardo? Senza rancore?". "Certo ispettore. Ha fatto un buon lavoro, ha chiuso in bellezza, auguri per il futuro".
Edoardo se ne stava seduto sul divano della biblioteca della scuola. Cagliostro lo fissava dalla scrivania con la coda penzolante. C’erano degli elementi che ancora non trovavano posto, o se lo trovavano entravano a fatica nella ricostruzione degli eventi.
Edoardo era d’accordo in linea di massima con la conclusione di Abrami ma trovava troppo sbrigativa la chiusura dell’indagine. Perché, si chiedeva - se il ladro ha obbligato Saturnino ad aprire la cassaforte, poi il frère l’ha richiusa con accuratezza? Che bisogno c’era se ormai era vuota? E tutta questa meticolosità mentre subiva un furto? Non aveva senso. Certo era che la richiesta che Thorpe/Santopetri aveva fatto a Saturnino era da parte sua inaccettabile... ecco perché si era chiuso nella biblioteca senza più uscire e senza rispondere più neanche al telefono: per proteggere i suoi libri, il suo mondo amatissimo, la sua eredità agli studenti della scuola. Sapeva che prima o poi l’antiquario o qualcuno per lui sarebbe andato a riprovarci.
Edoardo non riusciva a togliersi dalla testa quell’agenda, quegli appuntamenti che Saturnino non aveva potuto onorare. Emblema di una vita lasciata a metà. Sentiva di dovere ancora qualcosa a quello straordinario uomo. Riprese il telefonino in cui erano conservate le foto scattate a quelle pagine nelle quali erano annottati a penna orari e date...
Il giorno evidenziato con un cerchio, l’orario scritto a mano: 08 marzo alle 09:10, 09 marzo alle 19:20, il 10 aprile alle 9:10, il 12 aprile alle 19:20...
All’improvviso fece caso ad una nota della quale non si era accorto in precedenza: in calce alla pagina su cui era riportato il primo appuntamento compariva una nota: medio tutissimus ibis, Ovidio, Metamorfosi II, 137. – nel mezzo andrai al sicuro...
"E se..." pensò tra sé e sé.
Provò a scrivere differentemente quelle date su un foglio su cui il gattone appoggiava delicatamente le zampe anteriori.
8/3/9:10
9/3/19:20
10/4/9:10
12/4/19:20.
Cagliostro, nel frattempo, disturbato dalla presenza di Edoardo che armeggiava sulla scrivania, si era spostato ai piedi della scala scorrevole con cui frère Saturnino “volava” letteralmente da uno scaffale all’altro.
Edoardo guardò Cagliostro, poi il foglio e infine fissò lo sguardo sullo scaleo.
Lo spostò all’altezza della sezione otto. Si appoggiò ai corrimano e mise un piede sul primo piolo. Iniziò a salire mentre sentiva il cuore battere sempre più forte. Uno, due, tre scalini, fino ad arrivare allo scaffale numero tre, il terzo partendo dall’alto. Contò i volumi a partire da sinistra e si fermò al nono. Ed ecco comparire, tra la posizione nove e la dieci, un fascicolo con la copertina rigida rivestita di stoffa nera. Lo estrasse delicatamente dal suo nascondiglio; il dorso dei fogli era rosso, anche se di un rosso ormai sbiadito. Aprì la copertina con la delicatezza di chi maneggia un pezzo di cielo. Sulla prima pagina, scritto a inchiostro in bella calligrafia su una riga prestampata troneggiava un nome:
Carlo Alberto Salustri
Seconda Media sez. A
Erano codici. Era così che frère Saturnino aveva voluto mettere al riparo i suoi adorati quaderni. Il tesoro più prezioso della biblioteca. Il fiore sbocciato dall’insegnamento dei suoi predecessori. Il simbolo della continuità della missione educativa dei frère, una parte della loro storia.
Con le mani tremanti spostò la scala all’altezza della sezione nove, la successiva. Cercò secondo lo stesso principio: sezione nove, scaffale tre, tra la posizione diciannove e la venti. Ed ecco comparire il secondo quaderno. Lo stesso fece per il successivo: posizione dieci, scaffale quattro, di nuovo tra la posizione nove e la dieci.
E poi la conferma finale; al quarto tentativo trovò ciò che si aspettava di trovare: nulla.
Ecco com’era andata: Saturnino, certo del fatto che Thorpe/Santopetri avrebbe tentato di rubare i quaderni, li aveva tolti dal mobile blindato e li aveva nascosti dove nessuno li avrebbe mai cercati. Quando li aveva quasi messi tutti al sicuro arrivò il galoppino di Thorpe, che nel tentativo di strappargli dalle mani l’ultimo quaderno spinse il frère giù per le scale e lacerò l’ultima pagina del manoscritto.
Ecco, il mistero era risolto, i quaderni sarebbero tornati tutti al loro posto, l’anima di Saturnino avrebbe potuto continuare a vegliare sulla biblioteca e su coloro che avrebbero voluto frequentarla.
"Non ti sarò mai grato abbastanza", disse Michele ad Edoardo.
"Il tuo aiuto, la tua caparbietà, il tuo impegno personale sono stati fondamentali per me e per la nostra comunità in generale. Cosa possiamo fare per dimostrarti la nostra riconoscenza, Edoardo?".
"Nulla Michele, il fatto in sé mi ha restituito una parte di me che altrimenti sarebbe andata perduta per sempre. Ricongiungermi con essa è la ricompensa più grande che potrei mai chiedere. Tuttavia, forse, una piccolissima cosa potrei desiderarla...".
Edoardo oltrepassò un’altra volta il grande cancello di ferro, che stavolta si spalancò davanti a lui con un’aria meno austera del solito.
Camminava sereno, col suo trench blu notte, il Borsalino calato sulla testa, il maglione a collo alto color crema... e uno splendido Maine Coon abbandonato tra le braccia.
Giacomo Di Maria
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