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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 17

GIULIO IACCHETTI INCONTRA PALAZZO AGLIARDI

GIULIO IACCHETTI

senza regole non c’è progetto

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Inizierei da ciò che chiamo il fattore F, quello della formazione.

Giulio Iacchetti: Posso certificare che fino alla fine degli anni Ottanta per me la parola design non significava nulla. Non avevo mai sentito la necessità di dare una giustificazione teorica al progetto. Non risuonava in modo canonico o ufficiale, nella mia vita: avevo altre aderenze e allora realizzavo oggetti di cui avevo necessità personale, come ad esempio degli strumenti musicali dato che suonavo il basso in una band, oppure accessori che realizzavo con il mio papà.

G.D.P.: Ciò che oggi si chiama autoproduzione?

G.I.: In un certo senso, però del tutto inconsapevole: mi sembrava logico trovare soluzione a dei problemi, realizzando le cose con le mie mani. Non era bricolage, perché c’era comunque un tentativo di disegnare le cose, di progettarle.

Ricordo che feci il corpo di un basso elettrico perché un amico mi aveva venduto il manico, le corde, il pick-up senza il body.

Allora l’ho disegnato, realizzato e montato. Uno strumento che ho suonato per parecchi anni e che poi ho venduto per necessità.

G.D.P.: Ma questo fatto che il tuo “primo progetto” sia relativo alla costruzione di uno strumento musicale a corde dipende anche dal fatto che vieni da Cremona, patria dei liutai?

G.I.: Forse. A casa mia si è sempre suonato, siamo una famiglia di musicanti e l’amore per la musica c’è sempre stato. Nella band in cui suonavo il basso mi occupavo di risolvere problemi tecnici e procuravo materiali e ricambi. In modo particolare per la batteria: ricordo che andavo dal carpentiere per farmi fare gli anelli per tendere la pelle del rullante recuperato chissà dove, oppure tornivo le bacchette perché l’idea di poterle comprare era impraticabile!

G.D.P.: Vedendo alcuni tuoi oggetti di oggi si capisce che hai mantenuto questa capacità artigianale, anche quando le cose che fai sono prodotte industrialmente.

G.I.: Sicuramente. Poi ho scoperto che realizzare oggetti era un lavoro e l'esperienza pregressa è stata fondante. Pur avendo studiato architettura per un paio di anni, non avevo mai avuto a che fare con insegnamenti legati al design.

G.D.P.: Seguivi dei professori in particolare?

G.I.: Non ricordo, non avevo insegnanti particolarmente illuminati, guide potenti che mi accendessero la fiamma dentro. Oltretutto, con il mio atteggiamento pragmatico e basico, non sopportavo l’idea di teorie come, ad esempio, quelle radicali che invece di farmi volare mi inibivano e mi davano fastidio: da uomo di pianura e di campagna non reggevo il sentir evocare quei valori teorici. Quindi, per me, l’università è stata sofferenza. Per fortuna è arrivata la cartolina militare.

G.D.P.: Sei, quindi, a favore del ritorno del militare obbligatorio?

G.I.: Sì, per gli stessi motivi per cui molti dicono che non ci deve essere, in quanto inutile.

L’esercizio dell’inutilità ha un per me un valore stratosferico. Noi facciamo le cose per avere un utile a tutti i costi.

L’anno della leva militare era inutile e quindi utilissimo: perché ti confrontavi con la noia e con il fare cose inutili. Quando, durante il servizio militare, dicevano che la forma era sostanza, per me era una cosa bellissima, meravigliosa. L’obbedienza alla forma fatta bene la trovavo un esercizio straordinario. Naturalmente in ciò, per me, non c’è proprio nulla di militaristico.

G.D.P.: E quando finisce la naja, che succede?

G.I.: Finito il militare, per caso frequentai una scuola regionale di design e scoprii che era una cosa che mi interessava.

G.D.P.: Come mai una scuola di design e non una dedicata a un'altra materia?

G.I.: Ho sempre sentito l’esigenza di formarmi, di avere un’attenzione puntuale alla formazione, alla cultura. E anche oggi ho questa necessità. Tant’è che qualche anno fa mi sono laureato, frequentando a distanza il corso di Conservazione dei Beni Artistici a Ravenna.

Seguire un processo scolastico per me è stato importante, perché sono fondamentalmente un pigro e combatto la pigrizia con l’iperattività.

G.D.P.: In questo senso quanto vale la committenza e il sottostare a una commessa, a una regola?

G.I.: Hai pronunciato una parola magica.

Per me è fondamentale la regola e quando non sono gli altri a dartela mi servo da solo, perché senza regole non c’è progetto. E poi il progetto sta nel superamento della regola e se non c’è come fai a superarla?

Le regole possono essere stabilite dal committente che ha i suoi processi, le sue materie, il suo mercato, le sue economie, oppure autoimposte, ma ci devono essere sempre. Una delle regole principali è il tempo del progetto. Misurarsi con il tempo è fondamentale, fare bene in poco tempo, perché a fare bene in tantissimo tempo sono capaci tutti, o fare male in poco tempo non è interessante.

G.D.P.: Ti consideri un centometrista, o un maratoneta?

G.I.: Maratoneta, perché nella maratona non vince quasi mai il favorito: a volte ci sono dei grandi outsider, vale la resistenza e non la capacità. I cento metri sono una fiammata, metti male un piede e sei finito. Nella maratona vale la resistenza, non il più bravo. Io credo di essere un resistente. Per tornare alla domanda di prima, la metà dei miei lavori nasce da mie sollecitazioni, dal desiderio che ho di fare un determinato oggetto o di lavorare per una determinata azienda. Se non ho decine di progetti aperti sul tavolo non sto bene.

Vivo di questa bulimia di tanti canali progettuali, non riesco a dedicarmi a una sola cosa per volta.

G.D.P.: Ora quanti ne hai aperti?

G.I.: Una cinquantina...

G.D.P.: In tutto il mondo?

G.I.: Lavoro principalmente in Italia. Mi piace lavorare in Italia non per una questione di sciovinismo, ma di comprensione dei valori del progetto, di trovarsi e anche di capirsi parlando la stessa lingua, perché nel progetto è fondamentale parlarsi sempre.

G.D.P.: Prima dell’università cosa studiavi, liceo, istituto tecnico?

G.I.: Già alle medie disegnavo molto bene, non ero portato per altre materie. Per cui dopo ho studiato per diventare geometra, anche se è stato un passaggio da me mal sopportato.

G.D.P.: E come conseguenza poi ti sei iscritto ad Architettura.

G.I.: Sì, anche se non ho mai avuto interesse per gli spazi: non li so progettare e, se potessi, sceglierei sempre di progettare oggetti medio-piccoli.

G.D.P.: Per cui non senti la grande dimensione?

G.I.: Nell’oggetto arrivo fino al divano, poi tutto diventa più difficile.

G.D.P.: Qual è il senso del design oggi che siamo sommersi da oggetti? Quale la necessità di continuare a progettarne di nuovi?

G.I.: Sarebbe molto semplice dire che non c’è più alcun senso, anche perché abbiamo iniziato parlando del concetto di inutilità all’interno del quale stiamo tutti. Questo potrebbe portare a dire che non ha senso più produrre nulla, ma alla fine ti rendi conto che anche nella situazione più precaria ti ritrovi ancora una volta a schizzare una sedia, un cucchiaio, è più forte di noi. È un mio bisogno che poi interfaccio con l’esigenza di un’industria che vive di novità, perché è il mondo a vivere di novità.

G.D.P.: Continuando a insistere sul concetto di inutilità vorrei sottolineare che è stato da sempre un motore dell’arte: in questo senso che relazione hai con l’arte?

G.I.: Non ho un anelito verso l’arte, conosco pochi artisti, ma la cosa mi fa pensare perché recentemente il nostro comune amico Beppe Finessi mi ha detto che i miei lavori hanno come denominatore la scultura. Ciò mi ha fatto sorridere, perché fin da piccolo avevo una vocazione per la scultura e anche la mia famiglia l'aveva: mio nonno intagliava il legno, mio zio scolpiva il marmo.

Fin da bambino ho avuto quest’inclinazione verso la modellazione dalla forma. Per dare sfogo a questa mia attitudine utilizzavo il fango, la plastilina, a seguire il legno.

G.D.P.: Quanto conta il venire dalla provincia, cosa pensi ti abbia dato e cosa ti porti dietro?

G.I.: Sicuramente mi porto dietro il vissuto e soprattutto il fatto che in paese si vive una dimensione esperienziale diversa: il fatto di conoscere tutti, di entrare in ogni situazione, di viverla da vicino, starci sempre e in qualche modo dentro. È il contrario della città, ma a un certo punto la città la cerchi, perché è crescita, anche se il paese rimane dentro.

G.D.P.: Percentualmente quanto contano passione, studio e lavoro in quello che fai?

G.I.: Più della passione mi interessa il desiderio, la cosa disattesa.

Lavoriamo per fare una pila di soldi e non sappiamo dove andare a spenderli. Molte persone non hanno chiaro ciò che vogliono, perché non hanno desideri. La domanda che faccio spesso ai miei studenti è: “ce l’hai un desiderio?”.

Io ho dei desideri quali lavorare con una determinata azienda, disegnare quel tipo di oggetto. L'anno scorso ho disegnato un mandolino: è uno strumento che suonavo da ragazzo, dato che in paese c’era un gruppo che suonava strumenti a plettro. E oggi, guarda caso, succede che ho progettato un mandolino perché ne avevo desiderio, e questo desiderio ora è diminuito di intensità e ne è arrivato un altro. Mia mamma dice sempre che ero un bambino insoddisfatto: “avevi una cosa, ma appena la raggiungevi ne volevi un’altra ed eri la nostra disperazione, perché non eri mai felice.” Da piccolo mi preoccupavo quando mi dicevano che ero un insoddisfatto cronico, ma è proprio grazie a questa insoddisfazione che sono andato avanti.

La passione è automatica per realizzare le cose, ma se non hai desideri a che serve la passione?

G.D.P.: Inutilità e insoddisfazione, ma lo studio e il lavoro?

G.I.: Non è lavoro, è la mia vita: non posso neanche considerarlo un lavoro, perché mi prende tutto il tempo che ho. All’inizio realizzavo le cose e i modelli con le mani, poi c’è stata la stagione dei disegni, riempivo blocchi e blocchi di disegni, adesso c’è una terza fase del mio lavoro che è pensiero puro. Immagino le forme, continuo a coltivarle nella mia testa e il disegno è un solo un passaggio finale da passare a chi fa i rendering e i modelli da passare poi a chi realizzerà l’oggetto.

G.D.P.: Tornando al mandolino, mi viene da pensare che è un oggetto che da tempo non evolve, non è come molti altri oggetti, è abbastanza statico. Poi viene concepito come appartenente alla tradizione napoletana, mentre ce ne sono altre.

G.I.: Sei uno dei pochi a dire questo. In Italia ci sono tre tradizioni liutaie: la romana, la napoletana e la lombarda. Ha vinto la napoletana, perché aveva tutto un trascinato folcloristico che l’ha messa al centro dell’attenzione e ha tolto la scena agli altri modelli. Il mandolino lombardo veniva suonato nelle osterie e si tratta di un mandolino a cassa piatta, non a mandorla. Al di là di tutto, il mandolino è emblematico di un certo percorso di progettazione, perché un oggetto, se non viene riprogettato, muore. Nessun ragazzino vuole avvicinarsi a questo strumento: non ha un aspetto contemporaneo.

G.D.P.: Ringiovanire il passato: quando sei stato invitato a fare la mostra a Bergamo e dunque ad agire in relazione al passato, a una dimora storica, come hai interagito?

G.I.: In realtà ho scelto tre oggetti della mia produzione senza un vero approfondimento nel senso che intendi tu. Ho proposto oggetti che hanno una loro energia. Konstantin Grcic dice che gli oggetti irradiano un flusso di energia in grado di modificare lo spazio intorno a essi: è un concetto che condivido. Nell’occasione di Bergamo non abbiamo pensato di fare un tipo di allestimento mirato, ma ci siamo affidati all'energia degli oggetti in grado creare delle relazioni con il luogo.

G.D.P.: Ti ricordi di quali oggetti si trattava?

G.I.: Una padella, un Moscardino e un giocattolo di legno.

G.D.P.: Perché questi tre oggetti e non altri?

G.I.: Perché sono tre esercizi molto differenti. Il Moscardino è una piccola posata usa e getta disegnata con Matteo Ragni e ha vinto il Compasso d’Oro: rappresenta un esercizio minimo di design. Poi la padella per Bialetti, che rappresenta i grandi numeri per l’industria, un’invenzione brevettuale. E il terzo, un giocattolo in legno disegnato per la linea TobeUs di Matteo Ragni, che parla di un rinnovato rapporto con l’autoproduzione e con gli artigiani.

G.D.P.: È qualche anno che porti avanti un progetto di “autoproduzione”: Internoitaliano, progetto che condividi con tua moglie Silvia Cortese.

G.I.: Quando si parla di autoproduzione, sappiamo bene che è un termine non proprio preciso, perché dovrebbe significare che sono io a realizzare le cose, mentre non è proprio così.

Diciamo che sono un editore che disegna gli oggetti e li fa produrre per un marchio da altri, che sono artigiani.

Quindi è una cosa più legata all’imprenditoria e corrisponde più a un mio desiderio di autonomia, condivisa con altre persone. Non è un esercizio di arroganza o di alternativa, perché lavoro bene con le aziende. Tuttavia, ho sentito la necessità di crearmi una palestra di esercizi.

G.D.P.: Ma ci lavori solo tu come designer oppure...?

G.I.: All’inizio solo io, perché volevo darle i connotati, poi piano piano mi sono fatto da parte e ho chiamato progettisti esterni, perché ritengo che ci sia la necessità di raccordare all’idea originaria altri pensieri.

G.D.P.: Come funziona praticamente? Tu e tua moglie discutete che designer chiamare, quale oggetto chiedergli?

G.I.: Si, facciamo un briefing, discutiamo. È un bell’esercizio, anche perché Internoitaliano è poco più di un bambino. È bello farlo crescere, alimentarlo. Cresce lentamente quasi come un umano.

G.D.P.: Mi viene da pensare che questa modalità di creare un proprio marchio-progetto è qualcosa che sta avvenendo anche con alcuni altri designer, come ad esempio Stefano Giovannoni con Qeeboo e altri. Questo mi fa pensare al fatto che in Italia abbiamo non solo designer molto bravi, ma anche delle aziende molto buone e internazionali senza cui il design italiano e non solo, forse non avrebbe avuto la stessa forza. A fronte di questo mi chiedo quale la necessità di aggiungere altre “microaziende” o aziende personali: forse perché dato il loro successo hanno perso la loro forza propositiva in senso sperimentale e dunque sentite la necessità di creare dei vostri marchi?

G.I.: Non l’ho mai messo nei termini dell’incomprensione, ma di una necessità di coerenza e completezza, che nessuna azienda ti concede, o almeno per me è così. Per me è un’opportunità di creare una totalità processuale.

G.D.P.: Quando chiamate un designer per Internoitaliano sapete già cosa chiedere, o lasciate campo libero al designer invitato?

G.I.: No, sappiamo bene cosa chiedere.

La bellezza è anche trovare la persona giusta per l’oggetto giusto.

Come ad esempio la richiesta che abbiamo fatto a Tommaso Caldera, giovane designer molto bravo e con un segno molto elegante, armonico: disegnare una sedia minuta per piccoli spazi.

G.D.P.: Scegliete dei progettisti che corrispondono al tuo stile, che hanno un’aria di famiglia con quello che fai, o anche designer con uno stile e pensiero progettuale opposto?

G.I.: È più qualcosa che corrisponde al concetto anglosassone di family feeling, dove la foto di famiglia è un concetto allargato in cui ci sono lo zio scapolo, la nonna, la zia suora, i bambini, i gemelli... tutti diversi, ma che insieme stanno bene, perché c’è qualcosa che li unisce, senza essere dei cloni, ma delle individualità, dunque delle diversità. Questo è ciò che mi interessa, infatti negli oggetti di Internoitaliano, pur disegnati da mani diverse, nell’insieme hanno un’aria familiare.

G.D.P.: A proposito di italianità, qualche anno fa hai pubblicato un libro per Corraini, editore bravissimo, che più italiano non si può.

G.I.: È un libro che raccoglie gli scritti della rubrica mensile Italianità che tenevo sulla rivista Ottagono: era dedicata a temi soffusi e modesti del quotidiano, leggibili solo da italiani in tutta Italia, che potevano essere dei potenti connettori di leggibilità e appartenenza a un Paese. A differenza della Francia che si può riconoscere nella Marsigliese, Le Monde, Chanel N° 5 o Lacoste, tutti segni molto potenti, noi italiani in cosa ci riconosciamo? Io quel senso l'ho trovato, ad esempio, nella cedrata Tassoni, nella sigla del TG1, oppure nelle frasi di Fantozzi su cui avevo chiesto un commento allo scomparso Tommaso Labranca. Frasi solo nostre come la nuvoletta del signor Rossi, oppure citare la “cagata pazzesca” fantozziana riferita al film La corazzata Potëmkin per la quale riceviamo “92 minuti di applausi”.

G.D.P.: Hai condotto un progetto di design polare chiamato Eureka per la Coop. Come è nato?

G.I.: Intorno alla metà degli anni 2000, con Matteo ci trovavamo in Triennale con Paolo Ulian, Odo Fioravanti e altri designer, chiedendoci cosa poter fare insieme. Io suggerii di andare alla Coop a proporre di progettare per loro vari oggetti. Avrei potuto farlo da solo, ma non sarebbe stato così forte come farlo in gruppo.

Si trattava di irrompere su una scena che non aveva mai considerato il giovane design.

Avevamo capito che la distribuzione era un nodo centrale del progetto, come aveva evidenziato Chiara Alessi in Triennale nell'edizione “Storie” del Design Museum: non è più sufficiente occuparsi delle icone del design, va considerata anche la distribuzione. Ai tempi, cercare un’alleanza con un grande marchio di distribuzione fu centrale ed estrEmamente innovativo.

G.D.P.: Ma gli oggetti che poi avete proposto alla Coop da chi erano finanziati?

G.I.: Dalla Coop: personalmente mi occupavo di trovare i fornitori per realizzare gli oggetti progettati da 20 designer. Furono poi scelti 11 prodotti, dopo una prima fase di esposizione dei prototipi nei supermercati a cui era seguita la votazione da parte dei clienti.

G.D.P.: Visto il successo allora riscossi, perché a un certo punto sono usciti dalla produzione?

G.I.: Noi pensiamo alla Coop come a un organismo unico, mentre esistono tante Coop: Lombardia, Adriatica, Toscana, eccetera, ma a qualcuna di queste non interessava. Poi c’è un normale ricambio di prodotti, la curva delle vendite dopo alcuni anni tende a calare e le regole della GDO sono ferree... ciò che non vende a sufficienza viene eliminato.

G.D.P.: Quindi rapporti interrotti?

G.I.: Per nulla: infatti ho curato per loro, con Francesca Picchi, una mostra per i settant’anni di prodotti a marchio Coop, alla Triennale di Milano. E ho ancora speranze di riprendere con la Coop la questione di progetti di oggetti legati al design a prezzi competitivi, che era l’idea di Eureka.

G.D.P.: Parliamo di Cruciale è una tua mostra e progetto sulla croce: da cosa nasce?

G.I.: Non è legato all’aspetto religioso, ma è una riflessione su quanto potente possa essere un segno di due linee che si incrociano a formare quattro angoli retti, sprigionando un’energia incredibile per l’organizzazione del nostro mondo legato all’ortogonalità. Questo semplice segno è stato l’origine di tutto il mio lavoro, che ha suscitato discussione e attenzione. È un lavoro mai finito, perché ogni volta che la mostra viene ospitata in una nuova città realizzo un’altra croce, dedicata al luogo che la ospita. Sono opere che hanno tutte un aspetto progettuale forte, legato alla tecnica, ai materiali e così via, legato al mio mondo progettuale, legato alle sperimentazioni tecniche.

G.D.P.: C’è qualcosa che non hai progettato e che ti piacerebbe fare?

G.I.: Tante cose, potrei fare un lungo elenco sia di cose sia di aziende. Mi piacerebbe fare una grande mostra sugli strumenti musicali a Cremona, sulla sua storia. Cremona sta ai violini come Murano al vetro, ma sono un po’ chiusi e invece mi piacerebbe portare apertura. Mi piacerebbe lavorare per la Piaggio: l'anno scorso ho disegnato una Vespa per conto mio e l’ho messa in rete, migliaia di condivisioni. Un’azione un po’ corsara, da cui ho anche ricevuto tanti ordini di acquisto per un oggetto che non esiste! Quasi mi querelano, ma era peggio se non succedeva nulla.

BIO

GIULIO IACCHETTI (Castellone, 1966) è industrial designer dal 1992, progetta per diversi marchi, tra cui Abet Laminati, Alessi, Artemide, Fontana Arte, Foscarini, Ifi, Magis, Pandora design. È direttore artistico di Danese Milano, Dnd, Moleskine, Myhome e Internoitaliano. Tra i suoi caratteri distintivi ci sono la ricerca e la definizione di nuove tipologie oggettuali come il Moscardino, posata multiuso biodegradabile, disegnata con Matteo Ragni per Pandora Design e premiata nel 2001 con il Compasso d’Oro. Nel 2009 è stato insignito del Premio dei Premi per l’innovazione conferitogli dal Presidente della Repubblica Italiana per il progetto Eureka Coop, con cui ha portato il design nella grande distribuzione organizzata. Nel maggio 2009 la Triennale di Milano ha ospitato una sua mostra personale intitolata “Giulio Iacchetti. Oggetti disobbedienti”. Da sempre attento all’evoluzione del rapporto tra realtà artigiana e design, nel novembre 2012 lancia Internoitaliano, la “fabbrica diffusa” fatta di tanti laboratori artigiani con i quali firma e produce arredi e complementi ispirati al fare e al modo di abitare italiani. Parallelamente ha portato avanti la sua personale ricerca verso nuovi temi di progetto come quello della croce da cui è nata la mostra “Cruciale”, tenutasi al Museo Diocesano di Milano, nella Basilica di Santo Stefano Rotondo a Roma e al Castello di Lombardia a Enna. Nel 2014 vince il suo secondo Compasso d’Oro per la serie di tombini Sfera, disegnata con Matteo Ragni per Montini.

www.giulioiacchetti.com

PALAZZO AGLIARDI

Palazzo Agliardi racchiude 500 anni di storia della città e non solo di Bergamo: l’intreccio di vicende familiari, dinastiche, imprenditoriali, artistiche e militari che questo edificio racconta e testimonia è arricchito da grandi nomi ed eventi storici che vanno oltre le mura di Bergamo e segnano da un lato la storia d’Italia e dall’altro la storia dell’arte.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. Sanpietrino LAVAZZA © Giulio Iacchetti – Ph. TobeUs © Matteo Ragni - Ph. Ales © Massimo Gardone - Ph. Moscardino © Ezio Manciucca - Ph. Eur MAGIS © Giulio Iacchetti - Ph. Eureka COOP © Giulio Iacchetti | Editing di Roberta Facheris