Loading

Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 11

MARC SADLER INCONTRA PALAZZO MORONI

MARC SADLER

ci voleva un’icona per relazionarsi con uno spazio così fortemente caratterizzato.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Austria, Francia, Italia; ovvero nascita, crescita, residenza. Cosa ti hanno dato questi paesi?

Marc Sadler: Mi sento fiero di essere soprattutto europeo. Sono orgoglioso di essere francese, lo sarei altrettanto se fossi italiano, austriaco, eccetera. Penso che l’Europa sia per tutti noi un’opportunità fantastica. Viviamo delle difficoltà politiche, ma negli altri continenti l’Europa rappresenta, sia come singoli Paesi che come unione di stati, un capitale culturale enorme. Certamente, ogni paese ha delle bellissime eccellenze, ma da soli sono troppo piccoli.

G.D.P.: E sul design ciò ha dei riflessi?

M.S.: Direi di sì, per esempio una volta gli scarponi da sci in termoplastico venivano fatti in un unico distretto italiano, non potevi prescindere. Oggi non importa dove le cose sono prodotte, sono i bisogni di consumatori globalizzati che dettano le regole. L’approccio imprenditoriale oggi è verso il mercato globale, ma il filtro della cultura europea mantiene ancora, e meno male, la sua peculiarità ed importanza.

G.D.P.: Hai parlato di World Wide Market, ma questo influisce solo sulla strategia di marketing, o anche sul disegno del prodotto?

M.S.: L’evoluzione del mio lavoro si è molto allargata ed è impensabile non tenerne conto. Certo, in parte si lavora ancora “a tavolino”, confidando nel proprio fiuto o nel desiderio di affermare la propria cifra stilistica, sia da parte dei designer che degli imprenditori, soprattutto in Italia, ma sempre più spesso i progetti vanno sviluppati intorno a ragioni di costo, esigenze e opportunità.

G.D.P.: Ma questo aspetto ancora “artigianale” dei produttori, imprenditori italiani, lo vedi come un vantaggio o come un gap?

M.S.: Da questo atteggiamento, se ben coltivato, possono nascere fiori nuovi e sorprendenti. Anni fa ho iniziato a collaborare con SIMES, un’azienda bresciana dedicata alla produzione di apparecchi di illuminazione per esterni. Da questa collaborazione è nata Ghost, una famiglia di lampade di cemento, nel cemento, col cemento. All’inizio è stato difficile spiegare e promuovere un progetto che fa dell’invisibilità la sua ragion d’essere, ma alla fine è stato un grande successo, ha vinto molti premi e ha contribuito ad un salto di qualità all’azienda, grazie a richieste pervenute da grandi studi internazionali di architettura.

G.D.P.: Come è fatta?

M.S.: Genericamente l’azienda faceva corpi illuminanti che si applicano alle pareti. A me è venuta l’idea di fare una lampada che non fosse applicata al muro, ma dentro la parete, creando dei fori nel momento della gettata del cemento, così la forma della lampada è dentro la parete. In questo modo creiamo fasce luminose a scomparsa nel muro, così che è il muro ad emettere luce.

Come dicevo prima, il risultato è “un niente” luminoso, un buco nel muro che emette luce, un progetto sofisticato che si è concretizzato grazie ad un lavoro di team: un imprenditore illuminato, dei tecnici non refrattari alle novità ma anche, se non soprattutto, un designer illuminato.

Un sistema che ha permesso il deposito di brevetti perché non è una lampada concepita sulla modifica di una forma, ma su una tecnologia frutto di sperimentazione. È una bella storia di coraggio imprenditoriale all’italiana, come già mi è successo tanti anni fa con gli scarponi da sci.

G.D.P.: Come sono nati?

M.S.: Nel letto d’ospedale dove ero finito con una caviglia in pezzi dopo una caduta sugli sci: avevo i vecchi scarponi in cuoio. Sta di fatto che in ospedale avevo molto tempo per pensare e avendo fatto la mia tesi sulla plastica, mi son detto: “ma perché non fare degli scarponi di plastica che proteggono anche le caviglie?

Tornato a casa ho fatto il modello “cuocendolo” nel forno di mia madre, termoformando letteralmente due gusci, incollandoli.

Successivamente ho esposto questo modello in una mostra di architettura insieme ad altri modelli, e lì ho conosciuto il signor Caberlotto, un italiano del Veneto proprietario della Caber che si è mostrato interessato a questo embrione di prodotto. Mi ha detto che aveva una fiera imminente e che bisognava sviluppare subito l’idea. Aveva pochi soldi ma ho trovato un modo per fare uno stampo unico e li abbiamo prodotti in tanti colori. Alla fiera ha avuto un successo incredibile.

G.D.P.: Poi hai allargato il lavoro al progetto di tanti prodotti da sport?

M.S.: Sì, ho lavorato in tutto il mondo: Puma, Nike, Reebok, quasi tutti i grandi nomi dello sport. Per un lungo periodo ho lavorato nel mondo dello sport davvero a 360 gradi: progettavo scarponi, sci, tute, scarpe da ginnastica, eccetera.

G.D.P.: Tu sei un designer che ha anche una pratica artigianale, nel senso che fai disegni ma sperimenti personalmente le materie, le forme, hai un laboratorio artigiano, a differenza di alcuni design che disegnano solo.

M.S.: Si, d’altronde non conosco altre strade.

G.D.P.: Hai imparato questo, perché hai fatto una scuola artigiana?

M.S.: Ho studiato a Parigi in un corso chiamato Esthetique Industrielle, poi Architettura. Ma con il design era difficile sbarcare il lunario. Se non era per l’Italia, probabilmente, forse avrei cambiato strada.

G.D.P.: Prima dell’università hai fatto anche studi d’arte, tipo Liceo Artistico, o Istituto d’arte?

M.S.: Sì, all’EnsAD di Parigi, l’École nationale supérieure des Arts Décoratifs. È una scuola d’arte, di arredamento e architettura. Sono le scuole istituite da Napoleone, corrispondenti alle università italiane, ma a numero chiuso. Lì ho studiato disegno, modellazione, pittura, scultura. Io adoro disegnare. Alla fine di questi cinque anni di studi è stata aperta una scuola di design con pochissimi iscritti. Oggi gli iscritti sono migliaia.

G.D.P.: Infatti dai tuoi prodotti si percepisce questo tuo amore per il disegno. Nei tuoi oggetti la linea, il segno, è predominante.

M.S.: Quasi l’opposto dell’aspetto tecnico.

Spesso la gente ti mette un cappello pensando che sei quasi un ingegnere. Mentre saper fare la spola fra le due sponde, quella creativa e quella tecnica, non è male.

G.D.P.: In questa tua interdisciplinarietà sei come un artista del passato, in senso positivo, rinascimentale.

M.S.: Si, poi togli le cose che non servono e lasci il necessario. Come dicevamo prima, parlando di Ghost, la luce alla fine è un buco, un niente. Per questo progetto sono stato eletto in Inghilterra Product Designer of the Year nel settore della luce.

G.D.P.: Ma essendo tu un designer, la forma ha una sua forte presenza, mentre in questa invece scompare. Credi ad un design di forme o della sua scomparsa? Il meno e il più di Mies van der Rhoe?

M.S.: La forma ha la sua importanza. Questo ad esempio è il prototipo di un pavimento per la Listone Giordano. È frutto di una piccola innovazione, cioè l’utilizzo del multistrato di betulla – legno super resistente e relativamente poco costoso – ma girato “di testa”. Attraverso speciali trattamenti di superficie e un sistema di spazzolatura incrociata viene messa in risalto una texture particolare, una sorta di tessuto grezzo con trama e ordito accentuati. Il look è innovativo, il pavimento è di elevata resistenza tanto da essere annoverato nella categoria “ad alto calpestio”. Da un certo punto di vista è un prodotto NO design, ciononostante è il risultato di un processo di progettazione che ritengo l’essenza del buon design.

G.D.P.: Un’altra caratteristica del tuo modo di lavorare è che molti tuoi prodotti sono progetti-brevetto.

M.S.: Lo sono nel senso che cerco caratteri di unicità nei progetti quindi, se possibile, brevettabili anche come forma di tutela mia e dei miei committenti. Nel caso del pavimento c’è un aspetto formale superficiale che è secondario alla tecnica di costruzione del pavimento stesso che, forse, potrà risultare brevettabile.

G.D.P.: Anche qui un’attenzione alla decorazione che riconnette la tua proiezione tecnica proiettata nella sperimentazione moderna dei materiali con la decorazione, tecnica antica, legata all’arte del passato.

M.S.: Il rapporto con il passato è fondamentale. Prima di trasferirmi a Milano ho vissuto cinque anni a Venezia. Per esempio, nelle migliaia di chiese veneziane ammiravo gli incredibili intagli dei marmi per poi prenderne magari ispirazione per un progetto moderno di sci, o di un divano, riproducendo la stessa logica in un fil rouge tra passato e presente.

Tempo fa ho portato mio figlio a Crema per una partita di basket, una cittadina in cui non ero mai stato e ne ho approfittato per visitare tutte le chiese. Ho visto delle cose che ora fanno parte del mio capitale culturale. Anche questo è il bello di vivere in Italia, e anche in Europa, dove abbondano le testimonianze di un passato ricchissimo di storia.

G.D.P.: Difatti era proprio questo il senso dell’invito alla mostra DimoreDesign a Bergamo, in cui ti abbiamo chiesto di esporre in un palazzo seicentesco, Palazzo Moroni. Hai accettato mettendo una sola tipologia di prodotto, la Twiggy, perché?

M.S.: Quella lampada è diventata un’icona. E ci voleva un’icona per relazionarsi con uno spazio così fortemente caratterizzato. La genesi di Twiggy è stata lunga e complicata, tra le varie problematiche che abbiamo dovuto affrontare c’era quella del costo. Per essere commerciabile ad ampio spettro una lampada non deve superare di molto il costo di 1.000 euro, mentre con la produzione dell’asta curva il costo iniziale di Twiggy era del triplo. Mi sono allora ingegnato per realizzare l’asta dritta (quindi molto più economica), con la parte terminale di un certo peso che flette e curva lo stelo, ottenendo lo stesso risultato formale dello stelo curvo prodotto con lo stampo, perché la curvatura si autoproduce. Così, anziché un prodotto di nicchia, Twiggy è diventata un prodotto di successo tanto da diventare un’icona. Capire il rapporto fra denaro, forma e tecnologia è importante per trovare “la quadra del cerchio” di un progetto, cosa che spesso ti obbliga a ritornare a tavolino e a ricominciare.

G.D.P.: Per te è sempre molto importante il riscontro della vendita?

M.S.: Sì, è un partenariato con l’azienda. Io non ho quell’esperienza. Sono loro che mi dicono: “Marc, è molto bello, ci piace molto, ma dobbiamo stare entro certi costi”.

Questo mi stimola a pensare soluzioni e quando le trovi, come in questo caso, siamo tutti felici.

G.D.P.: Quella di tenere conto della vendibilità del prodotto è un’altra delle tue caratteristiche?

M.S.: Non essendo un artista ma un designer industriale la vendibilità del prodotto è e deve essere conditio sine qua non di ogni progetto. Per me l’azienda è sempre parte del progetto. Ci vuole, come dicevo prima, il buon senso, l’alchimia giusta nell’impiegare il team che c’è in azienda e non arrivare già con le soluzioni pronte, ma con delle intuizioni da sviluppare insieme a loro. Devo dire che questo l’ho imparato lavorando negli Stati Uniti.

G.D.P.: Cioè?

M.S.: Lì si lavora al contrario: prima il costo, poi il consumatore e partendo da questi fai il prodotto, mentre in Europa, e soprattutto in Italia, si parte da un’emozione, un’intuizione, dimenticandoci ogni tanto che il prodotto costerà troppo e non si venderà. Per cui, l’esperienza americana mi ha insegnato a non aver paura di parlare di denaro.

G.D.P.: Tornado ai premi, nei vinti tanti, tra cui quattro Compassi d’oro. Come ci si sente a essere pluripremiato?

M.S.: Ho un problema di pareti, non ci stanno più, basta! (risate). Comunque sono gratificazioni che fanno sempre piacere.

G.D.P.: Si parla tanto di crisi, ma esiste veramente la crisi del design anche come crisi di saturazione?

M.S.: È vero che ci sono tanti prodotti e il mercato è pieno di oggetti, d’altra parte le aziende manifatturiere non possono chiudere, poi il parco prodotti va rinnovato in senso più etico, verso la possibilità di riciclo, l’attenzione all’ambiente.

Inoltre è anche compito del designer sperimentare nuovi applicativi che generino nuovi prodotti.

Ad esempio, si pensa che non si possano più fare sedie in legno visto che ce ne sono già tantissime, ma di recente ho messo a punto con un’azienda un processo particolare che permetterà di fare sedie in legno diverse dal solito. Una tecnologia applicabile anche ad altre cose.

G.D.P.: Fra tutti gli oggetti che hai disegnato ce ne è uno che ti sta particolarmente a cuore?

M.S.: Sì, un oggetto che quando l’ho disegnato non pensavo avrebbe avuto un’influenza così grande: il paraschiena Dainese.

Una catena di elementi in plastica a forma di tartaruga che protegge la colonna vertebrale dei motociclisti e non solo. Inizialmente previsto solo per i piloti professionisti, è stato poi proposto ai motociclisti amatoriali e declinato anche per gli altri sport. È un prodotto diventato popolarissimo, con tanto di lettere di ringraziamento perché il paraschiena aveva salvato la vita di qualcuno. Da piccolo sognavo di fare il chirurgo per salvare vite umane: con il paraschiena in qualche modo ho ottenuto lo stesso risultato!

Chiudo con un aneddoto divertente che riguarda mio figlio all’età di 6/7 anni alla scuola sci. Il maestro aveva chiesto ai bambini: “Avete tutti la tartaruga?” E mio figlio: “Certo, e poi l’ha fatta il mio papà!” Il maestro, evidentemente non credendogli, aveva sorriso con una “ma va …” e mio figlio era rimasto malissimo (ride). La cosa importante però è che non lasciassero sciare i bambini senza il paraschiena.

G.D.P.: C’è ancora qualcosa che non hai ancora disegnato e vorresti disegnare?

M.S.: Mi interessa il mondo automotive. Alla fine degli anni 90 avevo fatto un progetto di scooter per Aprilia, il Moscoo, acronimo tra moto e scooter. È stato fatto un prototipo, esposto nel loro museo, ma non è mai riuscito a superare la fase di prototipazione. Dunque mi piacerebbe fare qualcosa nel campo della locomozione, dalla bicicletta alla moto. L’automobile no, perché credo sia molto complicato e poi non hai molti spazi creativi.

BIO

MARC SADLER (1946) Francese nato in Austria, ha vissuto ed esercitato la professione di designer in Francia, Stati Uniti, Asia e Italia. Uno dei primi laureati in “esthétique industrielle” all'ENSAD di Parigi con una tesi sulle materie plastiche, è stato pioniere della sperimentazione dei materiali e della contaminazione fra le tecnologie, divenute aspetti distintivi della sua attività. All’inizio degli anni ’70 mette a punto il primo scarpone da sci in materiale termoplastico interamente riciclabile, poi industrializzato dall’italiana Caber. E’ l’origine della sua specializzazione nel design dello sport che lo porta a lavorare con le più importanti multinazionali del settore in tutto il mondo. La provenienza da un ramo dell’industria dove la ricerca e sperimentazione di nuovi materiali e processi produttivi è diffusa, gli consente di esportare conoscenze in mondi dove è radicato il concetto di design circoscritto alla forma estetica. Progettista eclettico e cittadino del mondo, è oggi consulente di aziende di ogni settore dell’industria.

4 volte vincitore del Compasso d'Oro (1994, 2001, 2008 e 2014), 1 Menzione d’Onore (1998) e 2 Selezioni (1994 e 2008) dell’ADI Associazione Design Industriale, il suo lavoro è stato premiato molte altre volte a livello internazionale nel corso degli anni. Il suo paraschiena disegnato per Dainese è nella collezione permanente di design del MOMA di New York e la Mite di Foscarini fa parte della collezione design del Beaubourg di Parigi.

www.marcsadler.it

PALAZZO MORONI

Il giardino lussureggiante, le ampie sale barocche e la posizione panoramica sulla pianura sono solo alcuni dei tratti che rendono palazzo Moroni un unicum nel panorama bergamasco. L’edificio, risalente alla prima metà del ‘600, venne realizzato su iniziativa del “proto-industriale” serico Antonio Moroni con l’obiettivo di mostrare alla città la ricchezza che raggiunse l’omonima famiglia con l’industria della seta. Non poche furono le difficoltà da superare nella fase di costruzione: venne scavato il colle retrostante, si abbatté il palazzo dirimpettaio e si innalzò l’edificio creando più livelli sovrapposti. Nonostante i vincoli, il risultato ottenuto fu una residenza spettacolare: una dimora sorta dalla forza di volontà e dalla lucida follia del carattere bergamasco che dietro ad ogni impedimento trova la possibilità di superarlo.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. dell'installazione di Marc Sadler a Palazzo Moroni © Ezio Manciucca - Ph. lampada Ghost © Marc Sadler – Lo scarpone da sci, schizzo © Marc Sadler – Ph. pavimento Listone Giordano © Marc Sadler – Ph. Paraschiena Dainese © Marc Sadler | Editing di Roberta Facheris