Liliana Segre non è più una bambina da un bel po', eppure una piccola parte di lei rimarrà sempre quella ragazzina di 13 anni che, senza alcun motivo, si ritrovò catapultata improvvisamente nella bocca dell'Inferno.
Liliana ce l'ha fatta, è scampata alla morte, e dopo il suo ritorno a casa ha deciso di spendere la sua vita a lottare affinché quello che lei e altre milioni di persone avevano subito non si dovesse ripetere mai più.
La sua storia
Nata a Milano in una famiglia ebrea laica, visse con suo padre, Alberto, e i nonni paterni, Giuseppe Segre e Olga Loevvy. La madre, Lucia Foligno, morí quando Liliana non aveva neanche compiuto un anno.
Se alla stazione di Milano cercate il binario 21 non lo trovate.
Bisogna uscire dalla stazione, costeggiare piazzale Luigi di Savoia, oltrepassare il sottopasso, percorrere altri 500 metri in via Ferrante Aporti per arrivare davanti ad un anonimo ingresso che nasconde un binario da dove il 30 gennaio del 1944 partì un convoglio con 605 esseri umani diretti al campo di sterminio di Auschwitz.
Oggi a ricordare quella tragedia c’è un memoriale voluto proprio da Liliana Segre.
Catturata dopo aver tentato di espatriare in Svizzera con il padre per fuggire alla persecuzione delle leggi razziali fasciste che le avevano impedito persino di andare a scuola, Liliana passò gli ultimi giorni di gennaio al carcere di San Vittore. La mattina del 30 gennaio del 1944 venne caricata violentemente su un camion.
Attraversò la città deserta, rivide per l’ultima volta la sua casa in via Magenta al civico 55, fino alla stazione. Lì i camion infilarono i sotterranei e si fermarono proprio davanti ai binari nel ventre dell’edificio.
«Il passaggio – racconta Liliana Segre – fu velocissimo. Non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena uno era pieno, veniva sprangato e portato con l’elevatore alla banchina di partenza. Tutto si svolse nel buio del sotterraneo, illuminato da fari potenti nei punti strategici. Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno partì».
«Nel vagone era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni. Andava molto piano, fermandosi a volte per ore. Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, camini fumanti, campanili. Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”».
« Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io: una ragazzina reduce dall’inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione. Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza. Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare, avido di divertimenti e spensieratezza. »
Per questo suo impegno civile all'inizio del 2018 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha eletta Senatrice a Vita «per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale». Un riconoscimento che omaggia non solo la Segre, ma l'intera memoria di un popolo ferito che ha trovato la forza di rialzarsi ed il coraggio di non dimenticare.
Lo sguardo della bambina
Nei più di 70 anni spesi a testimoniare l'orrore della Shoah, Liliana ha sempre cercato di far capire cosa potesse significare per una ragazzina l'essere costretta ad abbandonare la scuola, agli amici e la propria casa perché qualcuno aveva deciso che non c'era più posto per lei e quelli come lei.
“E io non capivo, me ne stavo lì, come se avessi fatto qualcosa di male, a domandarmi se tutto era cambiato per colpa mia”. (Dall’intervista di Caterina Padolini, su Repubblica, 26 giugno 2003)
«Mi domando sempre come ha fatto quella ragazzina a salvarsi. Mi rivedo con la testa rapata, i piedi piagati dalla marcia della morte…». «S’è data una risposta?» «L’amore. Sono stata così tanto amata, dai nonni, da mio papà, un santo perdente. Un amore che mi serve anche adesso, che è come una pelle fantastica che ripara da tutti i mali del mondo. E ho ritrovato l’amore con mio marito». (Corriere della Sera, 20 gennaio 2018)
L'indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l'apatia morale di chi si volta dall'altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l'indifferenza.
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