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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 35

ODO FIORAVANTI INCONTRA VILLA GRISMONDI FINARDI

ODO FIORAVANTI

dobbiamo creare testimonianze e a chi mi dice che ci sono troppe sedie, rispondo che in tante case ci sono più finestre che sedie: allora non facciamo più finestre perché ce ne sono troppe?

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Perché prima di approdare al design hai studiato per alcuni anni Ingegneria senza poi terminare gli studi? E prima di iscriverti a Ingegneria, avevi studiato al liceo Classico?

Odo Fioravanti: No, avrei voluto fare il liceo Artistico, però mia madre, che insegnava arte alle scuole medie, non voleva che io e mia sorella seguissimo quella strada.

G.D.P.: Anche tua sorella ha cambiato scuola?

O.F.: Si, lei si iscrisse a Giurisprudenza per un anno e poi abbandonò per studiare decorazione all’Accademia di Belle Arti. Abbiamo studiato al Classico, perché era l’unico liceo del mio paese e sempre mia mamma non voleva che studiassimo al Liceo Artistico, perché a quei tempi c’era l’idea che in questo tipo di scuola ci fosse un po' un brutto ambiente (ride). Poi bisognava fare dieci chilometri in autobus che sembravano una traversata... Alla fine ci convinse ad iscriverci al Classico. A posteriori ho apprezzato questa spinta perché è una scuola molto formativa. Per fortuna ero molto bravo a tradurre dal latino, per cui partecipai anche al Certamen Ciceronianum di Arpino.

G.D.P.: Vincesti, visto che come designer sei stato pluripremiato fin dall’inizio.

O.F.: No no, era una gara internazionale con studenti che venivano da tutto il mondo. C’erano studenti russi, o americani super bravi.

G.D.P.: Tornando al progetto, all’Università di Ingegneria.

O.F.: A me è sempre piaciuto costruire, per cui mi sembrava che diventare ingegnere offrisse questa possibilità. Mi piaceva la matematica, ma ad ingegneria devi essere già preparato e provenendo dal Classico ero indietro rispetto a quelli provenienti dal liceo Scientifico. Inoltre non è che avessi tanta voglia di studiare e per l'ingegneria invece ci vuole una forte abnegazione e bisogna studiare parecchio...

G.D.P.: Per cui lasciasti a che anno?

O.F.: La cosa brutta è che nonostante tutto non volevo darmi per vinto e quindi ho aspettato cinque anni prima di lasciare gli studi di ingegneria. In quattro anni ho fatto sei esami e la disdetta fu che al quinto esame, quello di Fisica 1, il più difficile, presi 30 e Lode e questo mi convinse che ce la potevo fare, mentre se avessi preso un voto basso, forse avrei lasciato prima. Poi ho fatto il servizio militare e nel frattempo ho scoperto il design.

G.D.P.: Come l’hai scoperto?

O.F.: Per caso, un mio amico che studiava Ingegneria con me, anche lui non proprio un secchione, aveva lasciato prima di me. Nel frattempo era venuto a Milano per seguire un corso di formazione al Politecnico, che si teneva di sera nelle stesse aule in cui si insegnava design. In questo modo scoprì il design e, conoscendomi bene, mi telefonò subito, dicendomi: “Odo tu devi fare questa università”.

Io gli dissi di mandarmi delle informazioni, un dépliant e da lì partì tutto. Lasciai Ingegneria e venni a studiare al Politecnico. Capii subito che era la cosa giusta per me.

G.D.P.: In che anno arrivasti a Milano?

O.F.: Nel 1998, avevo 24 anni. Al terzo anno, 2001, vinsi il primo concorso, ma avevo capito dal primo esame che quella era la mia strada.

G.D.P.: Quale fu il primo esame?

O.F.: Un esame con Arnaboldi, un professore fantastico e un po' geniale.

G.D.P.: Cosa insegnava?

O.F.: Comunicazione Visiva, ma in realtà era un corso di Composizione Architettonica, anche se eravamo nel dipartimento di Design. Insomma, faceva quello che gli piaceva...

G.D.P.: Che è poi la vera docenza.

O.F.: Sì, c’era anche Maurizio Vitta con lui. Per me, che venivo da corsi noiosissimi di ingegneria, fu un corso incredibile.

Scoprii che si poteva studiare con la voglia di studiare.

Potevi pensare, mettendo insieme cose diverse, un approccio interdisciplinare che mi derivava anche dall’aver studiato al liceo Classico.

Il design te lo consente, perché devi occuparti di tutto: progettare, scrivere il testo, fare modellini o scattare delle foto, tutto raccolto in un’unità creativa varia in cui mi trovavo a mio agio dato che provenendo dal Classico non ero né carne e né pesce.

G.D.P.: Dall’esperienza di Ingegneria hai comunque portato qualcosa, o l’hai completamente messa da parte?

O.F.: Indubbiamente ho portato con me qualcosa, dato che ho da sempre una passione per i meccanismi, la meccanica e per le tecniche. Sono cresciuto in campagna, dove bisogna saper fare un po' tutto. L’altra mattina, a casa di mia suocera, aggiustavo una macchina che serve per pulire la piscina, mi si è accostato un bambino che mi ha chiesto:

Ma perché tu sai aggiustare le cose?

Mi ha fatto riflettere sul fatto che io le cose le ho sempre aggiustate. Già da bambino ci provavo e quindi mi è rimasto quest’amore per la tecnica, che è la parte che ancora oggi nel progetto mi diverte di più.

G.D.P.: Come procedi quando progetti?

O.F.: Sempre in modo diverso, anche se ho delle ossessioni formali per certe logiche. Penso molto al progetto e in questo mi riconosco nella frase di Bruno Munari: “Osservare a lungo, capire profondamente e fare in un attimo.” Per cui penso molto, di solito faccio degli schizzi, degli scarabocchi, perché non sono bravo a disegnare e poi facciamo dei modelli, dei plastici o anche modelli in 3D. Difatti nel mio studio c’è anche un’officina, un laboratorio.

G.D.P.: Sei uno dei pochi designer che ha sede in un’officina-laboratorio in cui costruire modelli, fare esperimenti.

O.F.: Sì, per me è una parte fondamentale. Ho sempre avuto questa manualità che ora si può esprimere meglio, potendomi permettere gli attrezzi giusti per fare le cose bene. È un aspetto che non riesco ad evitare, anzi ricerco, perché sento la necessità di esperire la presenza fisica di un oggetto, che con il computer non è possibile.

Il design non è l’architettura dove il modello è in scala e quindi non lo puoi vivere, non ci puoi entrare dentro. Nel design il modello è scala 1:1 a dimensione reale.

Spesso facciamo prima il modello che il ragionamento, poi lo facciamo con il legno cosi da riuscire a modificare, togliere, aggiungere. Un lavoro anche scultoreo a volte, un approccio un po' old school.

G.D.P.: In tal senso ti senti più legato alla vecchia tradizione del design italiano?

O.F.: Sì, anche se è cambiato molto. L’idea poter andare dall’artigiano che ti realizza il prototipo non l'ho mai avuta, perché quando ho iniziato l’artigiano aveva ancora molto lavoro e quindi non aveva tempo per impegnarsi con un giovane. Oggi che c’è crisi è più facile che l’artigiano dia retta ad un giovane.

G.D.P.: Visto che hai sempre avuto una certa manualità in questo senso sei stato sempre avvantaggiato, dato che i modelli te li sei sempre fatti da solo.

O.F.: Non mi sembra di averlo scelto, per me è sempre stato naturale agire così. Non riuscirei ad evitare di farlo, è inscindibile dal progetto. Metterci le mani, per me, è la parte più divertente. Probabilmente, psicanalizzandomi, direi che non ho fatto lo scultore, perché mia madre mi sconsigliava di fare l’artista. Rinascessi farei lo scultore.

G.D.P.: Cosa insegnava tua mamma?

O.F.: Educazione Artistica, Disegno Tecnico, tant’è che a 12 anni mi aveva già insegnato a disegnare la prospettiva, però mia madre mi diceva che non dovevo farlo di mestiere. Potevo fare l’ingegnere, l’architetto, ma l’artista no, si dice:

L'artista per la fame perse la vista.

G.D.P.: Per cui il designer è una sorta di compromesso tra l’ingegnere e l’artista?

O.F.: Mi dà la possibilità di fare degli oggetti che non sono solo belli, ma che hanno una funzione, con un’azienda che te li commissiona.

Insomma, il design ha molte giustificazioni, ma ammiro l’artista perché ha le spalle più forti del designer, perché fa qualcosa che nessuno gli chiede, le sue realizzazioni non sanno fare quasi niente (se proprio vogliamo fare una forzatura), o poche cose che non tutti possono capire e quindi ci vuole un convincimento più forte che io a quei tempi non avevo.

G.D.P.: Tuttavia, oggi c’è una tendenza nel design che si sposa fortemente con l’arte, tanto da essere chiamata art design, cosa ne pensi?

O.F.: Penso sia un po' un infingimento, per cui mi chiedo: “Se sono oggetti di art design perché devono stare nel mondo del design e non dell’arte?” L’unica spiegazione che riesco a darmi è che è più conveniente, perché cose che nell’arte sono state fatte trent'anni fa, nel design sembrano nuove. Quindi, sono tutti a caccia della nuova disciplina, perché nella nuova disciplina tutto è nuovo. Ma penso che se sposti un oggetto di art design nell’arte non lo guarda nessuno, perché nell’arte è stato fatto già tutto. Mi sembra strumentale, come mi sembra strumentale usare il design solo come disciplina di riflessione, perché se usi il design per fare delle sculture mascherate da funzione, o sei Sottsass, Enzo Mari, oppure rischi di fare cose che non stanno né di qua, né di là.

G.D.P.: Ma in quello che fai tieni conto anche dell’arte come riferimento?

O.F.: Sì, un tempo la coltivavo molto di più, ora con gli impegni faccio fatica a coltivarla. Un tempo non mi perdevo una mostra.

G.D.P.: Qual è lo stato di salute del design oggi?

O.F.: Usciamo da un momento di crisi di tante aziende, dovuto anche alla ridotta capacità d’acquisto delle persone. Adesso mi pare che da un paio d’anni, dal punto di vista economico, ci sia un clima migliore, mentre dal punto di vista creativo mi sembra sia un momento di convivenza di tante cose. C’è tantissimo recupero del passato, molti giovani che disegnano, manco fossero Giò Ponti, oggetti in ottone, marmi, stoffe cangianti. Forse per reazione al fatto che in questi tempi si fa un po' fatica ad investire sui giovani.

G.D.P.: Vuoi dire che oggi le aziende sono meno avventurose?

O.F.: Non so se lo sono mai state veramente. Io non le ho mai viste avventurose, forse prima che arrivassi a Milano lo erano.

G.D.P.: Ma i tuoi progetti sono stati messi in produzione fin dagli inizi?

O.F.: Sì, l’azienda Pedrali è stata molto coraggiosa, facendomi disegnare una sedia il cui stampo era molto costoso, ma non ne ho trovate molte altre così.

G.D.P.: Hai vinto anche il Compasso d’Oro con loro?

O.F.: Sì, con la seconda sedia, cosa che ha cambiato la mia vita, perché sono diventato un “designer di sedie”. Devo dire che ne sono contento, anche perché il mercato delle sedie è interessante e può dare soddisfazioni economiche ma anche di critica.

G.D.P.: Qual è il senso di disegnare ancora un nuovo modello di sedia, visto che oramai ce ne sono migliaia?

O.F.: Si potrebbe dire lo stesso ad un artista che fa un ennesimo quadro.

La sedia è come un quadro, dentro c’è sempre un contenuto, una forma diversa e ogni sedia parte da un momento storico diverso, diventandone espressione. Il vaso come contenitore era già risolto nell’antica Grecia, ma ha ancora senso progettarne di nuovi, perché ha senso che ogni cultura manifesti se stessa attraverso gli oggetti.

Quello che siamo permea gli oggetti ed è un dovere per il designer progettare oggetti che lascino un segno di quello che siamo adesso. La novità non è rappresentata dalla novità tipologica, l’uomo non può rassegnarsi al passato, perché oggi servono maggiormente oggetti, opere d’arte, poesie che rappresentino questo momento storico.

Non possiamo rassegnarci, ma dobbiamo creare testimonianze e a chi mi dice che ci sono troppe sedie, rispondo che in tante case ci sono più finestre che sedie: allora non facciamo più finestre perché ce ne sono troppe? Certo la sedia viene sempre presa come esempio di un’eccessiva riprogettazione dell’oggetto.

G.D.P.: Forse perché la sedia è una prima architettura, aderisce al corpo, accomoda la nostra gravità, infatti non c’è architetto e/o designer che non abbia progettato una, o più sedie. Tant’è che esiste una letteratura molto forte sulla sedia, anche rispetto agli altri oggetti.

O.F.: Sì, come dicevi, è una macchina semplice, combatte la gravità, si appoggia sul corpo, quindi è un oggetto personale ma non troppo, ti sta addosso ma fa parte dell’arredamento. È un oggetto che ha delle caratteristiche abbastanza uniche. Il fatto che ce ne siano tante è dovuto al fatto che non ti può seguire, ma ti può solo aspettare. Vai dal medico e nella sala d’aspetto ci sono dieci sedie che ti aspettavano, per questo dico spesso che la sedia è un oggetto molto paziente. In tutti i luoghi c’è una sedia che aspetta che tu vada a usarla.

G.D.P.: Tornando al tema del passato introdotto quando prima parlavi dei giovani, siccome la relazione con il passato è il tema della mostra DimoreDesign, mi piacerebbe che sviluppassi questo tema in relazione al tuo progettare.

O.F.: Penso che con il passato ci vogliano garbo e curiosità. Garbo perché sento di dover essere rispettoso nei confronti del passato: veniamo da lì, è un nostro patrimonio. C’è una sorta di sostenibilità storica da rispettare. Questo non è sempre ovvio in Italia. Il design ha un ruolo di mediazione delle tipologie tra presente e passato. Per cui, almeno da noi, è impossibile per un designer non avere un confronto quotidiano con il passato. Ora sto lavorando per un amico che ha una piccola azienda a Paestum, in cui vende dei souvenir del luogo. Allora ci siamo divertiti molto a progettare degli oggetti souvenir di oggi che abbiano una relazione con un posto così antico. Un tema in Italia cruciale. È così cruciale che da noi è sottovalutato. C’è tantissimo da fare sia sugli oggetti, ma anche su come rilanciare certe aree del Paese e su questo credo che i designer abbiano molto da dire. Infatti, questo negozio, Paestum Experience, di Mario Scairato, va benissimo. Vi si trovano oggetti progettati da diversi designer come Giulio Iacchetti, Vittorio Venezia e tanti altri.

G.D.P.: Cosa hai disegnato per esso?

O.F.: Un sistema di costruzioni per bambini le cui parti sono ispirate all’architettura dei templi dorici, una mediazione tra passato e presente.

G.D.P.: Invece per DimoreDesign in Villa Grismondi Finardi come hai lavorato?

O.F.: Vedendo gli spazi ne sono rimasto molto colpito, anche per il rispetto con cui i proprietari vivono questi luoghi molto delicati. Mi sono anche molto appassionato alla collezione di oggetti lì presenti, per cui ho pensato che poteva essere bello l’immagine del fil rouge.

Ho pensato a un cordino rosso che percorre le varie sale incontrando ogni tanto dei miei oggetti a confronto con alcuni del luogo: una sedia della casa e una disegnata da me, una teiera della casa e una disegnata da me e così via. Un confronto rispettoso e delicato da seguire, seguendo il filo rosso.

G.D.P.: Qual è il tuo rapporto con le aziende e qual è oggi la percentuale degli oggetti da te proposti e quelle che le aziende ti propongono?

O.F.: All’inizio le mie proposte superavano di gran lunga le richieste da parte delle aziende, rapporto che oggi si è invertito. All’inizio facevo tanti concorsi per cercare di lavorare, o telefonavo alle aziende chiedendogli di farmi lavorare. Ero così ingenuo... pensavo fosse un mondo più aperto ma non era così. Ho quindi iniziato a guardare i cataloghi delle aziende, scoprendo che se non c’era nessun outsider, molto probabilmente non sarei stato il primo. Comunque, con le aziende tendo a stabilire un rapporto duraturo, perché cerco di andare in profondità, partecipo a tutte le fasi dal concept fino ai dettagli tecnici e alla comunicazione. Cerco di far sì che l’azienda pensi a me come un professionista che sa aiutarla e che non crea problemi inutili, ma li risolve.

G.D.P.: Un esempio di una cosa che non ti hanno chiesto e che hai proposto?

O.F.: Questo portacandele, che presento nel modo che vedi dentro una scatola raffinatissima in cui l’azienda che lo riceve non sa di cosa si tratta finché non la apre.

G.D.P.: Una scatola a sorpresa?

O.F.: Sì, che ho inviato a un’azienda danese, con la quale non ho contatti. Gli ho mandato la scatola con dentro un prototipo e loro mi hanno risposto.

G.D.P.: La reazione?

O.F.: Il 90% delle volte negativa, ma il restante 10%...

G.D.P.: Il 90%, anche ora che sei un autore noto?

O.F.: Sì, perché se non puoi sapere di cosa in quel momento l’azienda abbia bisogno. Comunque ci tengo a confezionare bene le proposte: anche il modo di presentare un progetto è progetto. Ad esempio in quest’altro caso un progetto di teiera e tazze da the è stato accettato dall’azienda danese Normann Copenhagen. Ma anche quando il tentativo va male, se tu hai proposto un bel lavoro, ben presentato, al cliente rimane in testa l’idea di precisione, professionalità e di cura associati al tuo nome. Poi c’è un’altra possibilità che ti offre una presentazione ben fatta ed è quella che ti rispondano: “Ora non abbiamo bisogno di sviluppare un portacandele, ma abbiamo bisogno di una teiera, per cui ti interessa progettare per noi una teiera?”. Per quello che dico sempre ai ragazzi che lavorano per me,

facciamo le cose con cura, la qualità con cui facciamo e presentiamo un progetto deve essere indiscussa, perché magari quel progetto in quel momento non va bene, ma la qualità con cui l’hai presentato rimane come un retrogusto.

Devo dire che a volte funziona e questa è la soddisfazione più bella.

G.D.P.: Tutti oggi ci confrontiamo con il mondo Internet, anzi tutti ci presentiamo attraverso esso con siti, profili Facebook, Instagram e via dicendo. Ho guardato il tuo sito e ho trovato che hai un blog, un po' abbandonato di sole immagini.

O.F.: Abbandonato perché ora le posto su Instagram. Diciamo che dava sfogo a una specie di ossessione che ho per le cose, le forme, gli oggetti che vedo in giro. Se fai il designer finisci per compromettere il tuo rapporto con le cose. Il designer, occupandosi degli oggetti, finisce per trovare tracce connesse col suo lavoro ovunque. Ogni volta che entra in una casa, che va in un bar e così via finisce per guardare che oggetti ci sono. È una specie di malattia. Così scattare foto serve a prendere appunti, a ragionare sulle cose. Penso che la creatività si formi prendendo appunti, vedendo le criticità e raggrumando questi pensieri all’improvviso, in un'idea.

G.D.P.: Percentualmente a casa tua quanti oggetti tuoi ci sono?

O.F.: A casa non amo circondarmi degli oggetti che ho disegnato. Nella vecchia casa che avevamo non c'era niente di mio. Nella nuova casa ho scelto di mettere sette sedie diverse tutte mie, ma ancora mi ci devo abituare...

G.D.P.: Che ruolo ha il difetto, l’errore nel tuo progetto?

O.F.: È un tema abbastanza complicato, perché sono di natura perfezionista, un aggiustatore di forme. Le inizio male e poi le perfeziono, un raffinamento di passaggi successivi, come per i ciottoli che si lisciano con l’acqua nei fiumi. Se dovessi dire che cerco l’errore, no. Sicuramente negli oggetti che faccio metto qualcosa su cui l’occhio si ferma, perché se un oggetto è troppo “rotondo” e l’occhio non si ferma da nessuna parte, l’oggetto passa inosservato.

Cerco eccezioni alla regolarità non la bruttezza.

Quando vedo gli oggetti di IKEA penso sempre che c’è inserito un errore per renderli più normali, perché certi errori sugli oggetti di IKEA mi sembrano così evidenti, che mi pare impossibile che siano messi lì per caso. Penso che li mettano per umanizzarli. A me questo non interessa.

G.D.P.: Hai progettato qualcosa, come la tavola del surf, dietro cui non si pensa che ci sia un designer della tradizione italiana, ma più qualcuno che ha a che fare con l’ingegneria.

O.F.: Per la Land Rover: ci invitò a progettare un qualcosa per accompagnare la presentazione di una loro auto al Fuori Salone. Chiedevano qualcosa che mediasse tra la macchina e il mondo del design. Siccome era un macchina decappottabile mi venne in mente l’idea della tavola da surf che in certi film vedi buttare dentro un’auto convertibile, per poi correre verso il mare. Avevo visto la pubblicità televisiva dell’auto che andava su strada, sulla neve e sull’acqua. Allora mi venne in mente di fare tre tavole: una che andasse sull’acqua, una sull’asfalto e una sulla neve appunto. Tavola da surf, skateboard e snowboard con cui abbiamo poi partecipato al Fuorisalone.

G.D.P.: Visto che lavori sia con aziende italiane che straniere, europee ed asiatiche, che differenza vedi tra di loro e con quelle italiane?

O.F.: Con la Cina non ho mai lavorato direttamente, ma solo per tramite di aziende italiane, ma li ho trovati molto laboriosi, perché devono capire tutto nei minimi dettagli prima di fare. Se non capiscono non fanno. Questa è la parte più complicata, perché capirsi invece è complesso. Ma devo dire che oggi i prodotti cinesi hanno raggiunto un livello qualitativo che non ha nulla da invidiare al mercato europeo. I danesi sono diversi: molto veloci e smart, molto seri e dallo spirito commerciale fortissimo. In Italia come immagini si improvvisa molto, conta molto l’istinto. Io non sono istintivo, e sono pure un tipo ansioso, quindi generalmente sono più tranquillo quando lavoro coi Paesi del Nord Europa che hanno questa specie di ordine mentale nel lavoro. Dall’altra parte istinto, improvvisazione sono qualità italiane importanti, ma che non hanno permesso alle nostre aziende di diventare grandi in senso dimensionale, ma soprattutto in termini di portato culturale. Tant’è che ora, a livello del mercato del mobile, sono le aziende danesi a farla un po' da padroni. È il trionfo dell’organizzazione. Ma il bello del nostro lavoro è proprio navigare tra questi differenti mari.

G.D.P.: Nel corso dell’intervista è venuto più volte fuori l’importanza della forma e della sua bellezza, tante che parli di essa come della Forza di Star Wars, cosa vuoi dire con questo esattamente?

O.F.: Ho studiato in un momento storico in cui era vietato parlare della bellezza degli oggetti, perché i progetti venivano valutati attraverso la corrispondenza alla funzione e a una sorta di correttezza del processo della progettazione. Col tempo ho capito che per me la bellezza, in senso estetico, era importante, perché è qualcosa che si rilascia con il tempo e che ti accompagna per tutta la vita. Per me è importantissimo, perché è l’unico messaggio che non devi spiegare. Io tendo a trasferire in questo ragionamento anche l'idea di giustezza, quindi etica ed estetica come materia continua proprio come predicato dagli antichi greci che la chiamavano kalokagathia. Un’empatia tra oggetti e persone che amo coltivare e che penso attraversi le cose e le persone. Un po' come la Forza di Star Wars.

BIO

ODO FIORAVANTI Laureato in Industrial Design presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano, Odo Fioravanti si occupa dal 1998 di industrial design, sperimentando anche la grafica e l’exhibition design, con la volontà di ricondurre le diverse discipline ad una materia continua. I suoi progetti hanno ricevuto premi prestigiosi a livello internazionale. È stato docente e lecturer presso numerose scuole e università come il Politecnico di Milano, lo IUAV di Treviso, l’Università di San Marino, l’Istituto Marangoni, la Scuola Politecnica di Design, la Domus Academy, HEAD Genève.

Nel 2006 ha fondato l’Odo Fioravanti Design Studio che ha sviluppato progetti per diverse aziende. I suoi lavori hanno fatto parte di diverse esposizioni internazionali, culminate nel 2010 con una mostra personale dal titolo “Industrious Design” presso il Design Museum della Triennale di Milano.

www.fioravanti.eu

VILLA GRISMONDI FINARDI

Raccontare la storia di Villa Grismondi Finardi significa avventurarsi nella scoperta delle radici più intime del panorama intellettuale italiano dal settecento in avanti. Il Conte Luigi Grismondi, la moglie Paolina Secco Suardo, il matematico Mascheroni e il garibaldino Giovanni Finardi sono solo alcuni degli eccentrici personaggi che hanno frequentato le stanze di questa dimora negli anni. La Villa, rimodulata con il passare dei secoli, si presenta attualmente come un incrocio tra il settecentesco luogo di villeggiatura e l’antica abitazione rurale bergamasca. Il suo androne d’ingresso, dove si conservano affreschi sacri di epoca medievale, l’ampio e ombroso giardino, così come la collocazione della dimora nel quartiere “liberty” della città, la rendono una testimone eccezionale delle epoche passate e un luogo che con la sua quiete è capace di farci immergere in un’atmosfera d’altri tempi.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Opere di Odo Fioravanti a Villa Grismondi FInardi © ph. Ezio Manciucca - Sedia Frida © ph. Leo Torri - Tavola Free Ride ©MilanoForward.com - Ritratto di Odo Fioravanti © Emanuele Zamponi | Editing di Roberta Facheris