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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 34

LORENZO DAMIANI INCONTRA PALAZZO AGLIARDI

LORENZO DAMIANI

Per me progettare vuol dire per prima cosa interrogarsi sul senso delle cose.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: È da poco passato il Salone del Mobile, per questo comincerei col chiederti della tua partecipazione al Salone e al Fuori Salone, visto che sono tra i più importanti appuntamenti internazionali del mondo del design.

Lorenzo Damiani: Certo, queste manifestazioni sono centrali per chi fa il mio lavoro, soprattutto per chi progetta nel settore del mobile, anche se per quanto mi riguarda, nel corso degli anni, sono riuscito ad avere degli appuntamenti, delle partecipazioni anche al di là di questi eventi. Comunque, per il Salone del Mobile di quest'anno ho progettato sia dei prodotti esposti in fiera come il tavolo per l’azienda “Da a” che dei prodotti per il Fuori Salone e anche degli allestimenti.

G.D.P.: Puoi spiegare com’è il tavolo a cui hai accennato, come è fatto cosa lo distingue dagli altri?

L.D.: Iniziamo dal nome… Crossing! È un tavolo dalle forme essenziali, pensato per ambienti e usi diversi creato con una lamiera metallica tagliata e piegata, che genera una nervatura strutturale che diviene elemento compositivo caratterizzante. I tiranti, durante “l’attraversamento” della lastra all’interno dell’onda centrale, assumono anche valenza decorativa e la loro presenza, sulla parte soprastante del piano, viene sottolineata con un cambio di finitura della superficie. Mi piace quando la struttura di un elemento diviene contemporaneamente altro.

G.D.P.: Ci parli ora degli allestimenti? Che vuol dire non allestire i propri prodotti, ma quelli degli altri?

L.D.: Significa, credo, fare “un passo indietro” e diventare gli artefici di un racconto utilizzando l’alfabeto di altri ma… dialogare con lo spazio è quello che mi piace fare. Progettare un allestimento significa anche trovare nuove relazioni tra l’oggetto esposto e l’intorno facendo divenire il lavoro altrui anche “un po’ mio”.

Partirei dall’installazione fatta per IKEA per il Fuori Salone 2018: INTERNI mi ha chiesto di raccontare la filosofia di IKEA in 60 mq (ride) all’interno dell’annuale evento “House in Motion”. Difficile trovare un punto di partenza “chiaro” per iniziare a ragionare sul progetto e, alla fine di un periodo un po' “confuso” in cui ho fatto ricerca in più direzioni, ho deciso di lavorare cercando di rappresentare dei temi e valori cari all’azienda scandinava quali, ad esempio, la componibilità o modularità che dir si voglia per trasmettere l’idea che questi prodotti siano veramente per tutti e adattabili al cambiamento del vivere contemporaneo.

G.D.P.: Mission Impossible, dato che i prodotti IKEA sono centinaia, se non migliaia?

L.D.: Certo, difficile, ma lavorando sulla “visione aziendale” è diventato tutto più semplice e, come dicevo, me la sono cavata lavorando sul tema della componibilità, facendo capire che con i loro prodotti si può comporre di tutto, fare quasi qualsiasi cosa. Ho chiamato l’installazione “Alla scoperta dell’infinito”.

È una casetta, una forma archetipica con una maniglia per essere idealmente trasportabile e all’interno vi era il mondo IKEA che faceva capire che anche l’intervento dell’interlocutore, dell’utilizzatore poteva a sua volta generare delle scoperte a volte molto più interessanti. Io ne ho suggerite alcune al limite del paradossale...

G.D.P.: Paradossale come?

L.D.: Tipo gambe di tavolini che diventavano portafiori, piani che diventavano mensole, mobili in divenire che potevano diventare qualcos’altro. Suggerimenti che dicevano: “guarda che con un po' di fantasia si possono fare tante cose”. E anche per far capire che il mondo di IKEA è potenzialmente infinito per cui all’interno c’era questa esplosione di moduli su pareti, pavimento, soffitto, dappertutto. Il visitatore entrava e si trovava immerso in questo mondo al buio o quasi, in penombra, e per scoprirlo doveva prendere una torcia dell’IKEA con dinamo ricaricabile a manovella e con essa illuminava l’installazione e iniziava la visita. Anche la piccola torcia è un elemento importante riguardo ai temi della politica aziendale IKEA legata alla sostenibilità. Poi ho curato una mostra per la Triennale alla Villa Reale di Monza intitolata “Monza e gli ultimi cappellai”, dove ho proposto di esporre il lavoro e la storia di un’azienda artigiana piccolissima, l'ultimo cappellaio di Monza, città famosa anche proprio per un passato che le ha attribuito la fama di città del cappello di feltro. Da IKEA al piccolo ultimo artigiano, per cui sono andato da un eccesso all’altro. Per Vimercati ho progettato anche un cappello, diciamo che ho voluto bloccare, ad un certo punto, la lavorazione tipica del cappello trasformando il semilavorato in prodotto.

La parte ondulata che viene tagliata e scartata, io l’ho riutilizzata “congelandola”, facendola diventare un motivo ornamentale del cappello stesso. Un piccolo pensiero, che si è trasformato in una forma diversa del cappello ottenuta senza il bisogno di lavorazioni aggiuntive.

G.D.P.: E questo è, tutto?

L.D.: No, ho presentato anche mobili, cassettiere, maniglie…

G.D.P.: Prima durante la visita a Palazzo Agliardi, afferravi le maniglie settecentesche delle porte delle stanze, e dicevi che c’è una grande sapienza nelle maniglie di una volta e anche che è molto difficile progettarne di nuove. Ma è comunque sempre un tema molto interessante, pensiamo a Koolhaas che nella Biennale d’Architettura, da lui curata nel 2014, dedicò un’intera sezione alle maniglie, ce n’erano migliaia. Comunque tu hai accettato la sfida e cosa ne è venuto fuori, a cosa ti sei appigliato?

L.D.: Dicevo che alla richiesta la mia prima risposta è stata: “Ma proprio a me dovevate chiederlo?” [ride]

G.D.P.: Perché?

L.D.: Perché è un progetto molto difficile, perché oramai c’è troppo di tutto e quindi è veramente improbabile progettare dicendo qualcosa di diverso.

La maniglia, a mio avviso, è un oggetto su cui, anche fisicamente, c’è poco su cui lavorare. Allora ho deciso di ragionare sul concetto di deformazione cercando di creare delle forme stressando il materiale mirando a mantenere, nel risultato così ottenuto, l'impronta dello strumento stesso necessario per creare questo “cambio di forma” che coincide proprio con la sede per il pollice.

La presenza della sede per il pollice sulla leva della maniglia è, di per sé, un’idea vecchia come il mondo, però necessaria al fatto che volevo ottenere la forma per deformazione del semilavorato, ossia il tubolare, e non per stampaggio. In tal modo da un semplice gesto di pressione su un tubo cavo si è prodotta una concavità formalmente piacevole e molto comoda alla presa, suggerendo un’ergonomia anche visiva che invoglia alla presa, anche se per un attimo.

G.D.P.: Difatti questa difficoltà del progetto attuale è una problematica venuta fuori in quasi tutte le interviste e poi c’è anche la concorrenza di IKEA...

L.D.: Per me progettare vuol dire per prima cosa interrogarsi sul senso delle cose.

Il progettista ogni qualvolta che inizia un progetto è come se prendesse una posizione rispetto a quello che lo circonda. Se già fatta in infiniti modi diversi, ha un senso rifare l’ennesima cosa già presente sul mercato? Ecco... io mi chiedo questo prima di iniziare qualsiasi altro ragionamento. A volte è sufficiente inserire nel progetto un'idea anche minima per cercare una variazione rispetto all'esistente. Tuttavia bisogna anche chiedersi se è necessario ricercare il diverso.

Tante volte penso: “ma se non l’ha mai fatto nessuno, è forse perché non serve? È forse perché non funziona, o forse perché effettivamente non ci hanno pensato?”

G.D.P.: A te è capitato?

L.D.: Certo, ad esempio quando anni fa ho deciso di progettare dei feltrini adesivi, che penso sia il prodotto più umile e silenzioso presente nelle abitazioni, perché vengono sempre schiacciati da tutto e da tutti gli oggetti su cui vengono incollati.

Dico sempre che il feltrino è il punto di contatto tra il design e l'architettura... pensate al perché.

G.D.P.: Quando e perché li hai progettati?

L.D.: Per la Coop tanti anni fa. In quell'occasione ho capito che qualsiasi oggetto può essere riprogettato, perché comunque c’è sempre un margine di adeguamento al contesto. La riflessione che mi ha portato all’ideazione di questo progetto non è stata formale, ma sono partito, come spesso faccio, dall’analisi dei comportamenti. Mi son chiesto: “Quando acquisto un feltrino cosa faccio?”. La risposta è che molto spesso si compra il feltrino senza sapere di che misura sia utile, per cui si torna a casa con un feltrino più grande del necessario per non sbagliare e poi si rifila con la forbice per ricavare la dimensione che serve. Allora ho pensato di fare dei feltrini pre fustellati contenenti misure diverse: anelli concentrici in cui lo strato adesivo diviene elemento connettivo delle parti. In questo modo si può avere la “taglia giusta” senza utilizzare nessuno strumento di taglio perché tutto è già pronto e i cerchi di feltro rimanenti possono essere utilizzati in un'altra occasione. Una piccola riflessione che giustifica la necessità di fare un oggetto nuovo.

G.D.P.: Con questo approccio ti capita di accettare di progettare qualcosa che poi non riesci a fare, o di rifiutare a monte?

L.D.: Sì, anche per questo Salone mi erano stati chiesti progetti che ho rifiutato, o che non sono riuscito a fare, proprio per l'impossibilità di trovare quell’idea a cui aggrapparmi... per cui far nascere il racconto.

G.D.P.: Infatti si parla del tuo design, del tuo progetto come di una poetica che unisce etica ed estetica.

L.D.: Per me la forma è importantissima in quanto aiuta un oggetto ad essere acquistato, ma allo stesso tempo penso debba nascere dopo tutta una serie di ragionamenti. Forse non sono neanche capace di partire dalla forma, non mi viene proprio, perché penso che la forma derivi da un processo che “nasce facendo”, progettando. Poi, molto spesso, ogni materiale ha la sua forma, intrinseca direi. Qualche anno fa progettai oggetti in truciolare tornito: vasi, sedie, madie di forme piuttosto arrotondate. Questa non era una scelta formale a priori, la scelta era dovuta al fatto che il truciolare a spigolo vivo si sfalda, si rompe, mentre arrotondandolo al tornio acquista consistenza.

"Truciolari collection"

Un' altra questione, invece, è quella del riutilizzo degli oggetti o dei semilavorati e... per questo mi piace citare la panca Benna progettata per “Da a”, un'azienda di meccanica pesante leccese che produce benne agricole e componenti vari per ruspe, scavatori e tanto altro. Per loro mi è venuta l’idea di utilizzare degli stampi già esistenti di piegatura della lamiera per realizzare oggetti diversi da quelli per cui gli stampi stessi erano stati inizialmente prodotti. Sono nate, quindi, delle panche prodotte utilizzando questi stampi, già presenti in azienda, che hanno fortemente caratterizzato il progetto con la presenza di una piega... anzi meglio dire

UN RICCIOLO CHE NON HA CERTO UN INTENTO DECORATIVO MA STRUTTURALE, PER DARE PORTANZA ALLA LAMIERA E PER POTER ANCHE CREARE UNA POSSIBILITÀ MODULARE:

dico questo perché all'interno del ricciolo è possibile inserire un tubo che permette di agganciare, tra loro, le varie panche oppure sospendere dei piani circolari sopra gli stessi tubi, tra una panca e l'altra.

G.D.P.: Sei stato anche indicato come l’erede di Castiglioni, tant’è che hai avuto, tra pochi, una mostra alla Fondazione Castiglioni.

L.D.: Magari! I giganti lasciamoli dove sono. Non ho lavorato con Castiglioni, l’ho conosciuto mentre facevo la tesi. Con altri due amici andammo a trovarlo per fargli un’intervista. Ricordo che quello che mi colpì di più, oltre il suo indiscusso valore e genio professionale, fu la sua umanità e disponibilità. Si mise a nostra disposizione per un intero pomeriggio, spiegandoci vari suoi progetti.

G.D.P.: Si trattava di una tesi su Castiglioni?

L.D.: Era una tesi sulla salvaguardia del processo creativo nel design e tra i vari progetti scelti c’era anche un suo prodotto per Interflex. Ci colpì, come detto, la sua disponibilità.

G.D.P.: Certo, ma ti sarai posto la domanda del perché ti abbiano indicato come l’erede di Castiglioni?

L.D.: Non esagerare! Se esiste, esiste una somiglianza mi piacerebbe che fosse per la disponibilità, perché il lato umano per me è molto importante ma, detto questo, potrebbe forse essere perché quando progetto cerco di trovare una piccola idea. Infatti, la mostra dedicata al mio lavoro, presso la Fondazione Achille Castiglioni, l'avevamo intitolata Senza stile, proprio perché se mettessimo in fila i miei oggetti non si riconoscerebbe certo uno stile, ma un piccolo filo rosso che accomuna la presenza di idee. Credo e spero ci sia continuità.

G.D.P.: Hai citato molto l’azienda “Da a”, un’azienda pugliese, e lavori con un’altra di Napoli che lavora il marmo. Sappiamo che il design è tradizionalmente legato al contesto brianzolo, o del Nord Est, mentre qui appare un meridione molto attivo. Si tratta di uno spostamento interessante rispetto al distretto del mobile?

L.D.: Sicuramente negli ultimi anni i confini dei distretti tradizionalmente intesi sono più sfumati. Io lavoro con aziende prevalentemente del Centro e Nord Italia anche se negli ultimi anni mi è capitato di lavorare sempre più spesso con aziende del Sud e devo dire che sono realtà di grande professionalità. Questa vantata differenza tra Nord e Sud io non l’ho notata, anzi. Ad esempio mi è capitato di lavorare con un’azienda di Napoli che lavora il marmo, Alfa Marmi, che è molto all’avanguardia. Ho trovato delle grandi eccellenze al Sud. Probabilmente le cose positive fanno meno rumore di quelle negative.

G.D.P.: Nel rapporto con le aziende in generale come è declinato e che relazione c’è tra l’auto committenza, la committenza e la committenza a proposta?

L.D.: È sempre più difficile avere qualcosa di già fatto e proporlo, ogni tanto capita, ma è difficilissimo. Spesso con le aziende i progetti nascono un po' insieme miscelando competenze diverse. Comunque faccio delle produzioni per me in cui posso esagerare, sbagliare, fare ricerca con una percentuale molto più alta che con le aziende. Ma la ricerca, la sperimentazione rimane sempre al primo posto. Ad esempio ho progettato dei rubinetti per Ceramica Flaminia caratterizzati da una piegatura meccanica del tubo, quasi per enfatizzare la forza del gesto: in pratica ho piegato un tubo e la piegatura stessa ha assunto una doppia valenza. Se internamente serve per diminuire il flusso dell’acqua per utilizzarne la minor quantità possibile, esternamente questa piegatura si mostra esteticamente come un segno molto forte e distintivo di tutta la collezione. Quindi una piega che diviene funzionale all'interno ed estetica all'esterno del tubo. Oppure ho progettato dei rubinetti, per IB Rubinetti, che si muovono come un joystick: muovendo Onlyone, questo è il nome del rubinetto, a destra o sinistra si può selezionare temperatura e quantità d'acqua desiderata. In altri prodotti questa idea è ancora più accentuata. Proprio nella mostra alla Fondazione Castiglioni ho presentato i primi esperimenti di oggetti in marmo piegato.

G.D.P.: Il marmo si può piegare?

L.D.: Il marmo si può piegare. Il marmo galleggia e secondo me può anche volare. Bisogna sempre chiedersi perché farlo volare, farlo galleggiare, perché piegarlo? Finora sono riuscito a rispondere solo alla domanda del perché piegare il marmo.

G.D.P.: Ma com’è che ti sei accorto che il marmo si può piegare?

L.D.: Per caso, fortuna forse... Sono stato chiamato dall’azienda di marmi Pusterla di Como, per progettare una lampada fatta con il marmo, ma una volta lì è emerso un problema comune a tutto il settore: osservando la movimentazione delle lastre di marmo tagliate sottili, circa di 5 millimetri, queste tendevano ad incurvarsi con il rischio di rompersi. Quello che per loro era un problema, per me diventato una fonte di ispirazione aprendomi degli scenari ancora poco esplorati. Da lì ho progettato oggetti con superfici curve che, fino ad allora, potevano essere realizzati solo se scavati dal blocco pieno, con un grande scarto di materia, mentre io ho fatto delle cose con lastre piegate e incollate. Già dieci anni prima avevo fatto una serie di tavoli, madie con lastre marmo sottile, il passo successivo è stato proprio quello di piegare queste lastre e quindi sono nati altri tavoli, panche. A parità di forma, un oggetto in marmo sottile piegato utilizza un ventesimo del materiale che si dovrebbe impiegare per realizzare la stessa forma scavandola dal blocco. In seguito è nata l’estremizzazione del concetto, ossia la panca Foglio con struttura di legno su cui viene appoggiata sopra una lastra di marmo di 5 millimetri piana ma che flette sotto il peso della persona che si siede.

La forma può piacere o meno, ma quello che uno si porta a casa è il ricordo di essersi seduto su una lastra di marmo pieghevole. Il ruolo del designer è anche quello di trasformare le criticità in opportunità.

G.D.P.: Come hai iniziato a fare il designer?

L.D.: Ho studiato architettura al Politecnico di Milano con professori di grande qualità che mi hanno dato molto come Corrado Levi. Ho studiato architettura, ma poi ho deciso di non fare l’architetto…

La mia fortuna è stata quella di trovarmi in un ordinamento universitario un po' disordinato, dove bisognava arrangiarsi e questo mi ha permesso di studiare e approfondire argomenti al di là di quello che mi chiedevano i professori. Quindi ho iniziato a fare dei concorsi di design, non combinando mai niente, venendo giustamente respinto. Però è stato molto utile ... formativo direi!

G.D.P.: Qual è il primo progetto che invece ti è stato accolto?

L.D.: Un progetto che mi chiedono ancora adesso, Packlight proposta ad un concorso della Osram, che chiedeva di realizzare una lampada. Mi sono chiesto: “perché realizzare una lampada per un’azienda che non produce lampade?” Allora non ho fatto altro che utilizzare il blister trasparente dentro cui venivano vendute le lampadine Osram, a risparmio energetico, negli scaffali della grande distribuzione e trasformarlo in apparecchio illuminante. Mi interessava dare una possibilità di scelta all’acquirente, dicendogli:

“Tu puoi, come hai sempre fatto, aprire il blister e montare la lampadine sulla lampada di casa, oppure puoi trasformare il tuo blister in un apparecchio illuminante”.

Volevo offrire un pensiero che diventasse quasi un virus nella mente dell’utilizzatore, per portarlo a pensare: “Caspita! Se questa lampada l’ho fatta con un blister, magari posso applicare lo stesso concetto anche ad altre cose.”

G.D.P.: Ad esempio?

L.D.: A svariati altri packaging, ad oggetti inutilizzati ma ancora pieni di potenzialità trasformandoli in altre cose. Ancora oggi c’è un packaging di cartone per la pasta che conservo ogni volta, per utilizzarlo come un portafoto. L’idea che sottende Packlight è quella di suggerire un cambio di atteggiamento nei confronti delle cose, soprattutto in un momento, il 1995, in cui si buttava tutto via o quasi. Non c’era ancora la coscienza del riciclo di oggi. Oggi pensiamo tutti ecologicamente, ma oggi dire che “voglio un progetto verde” è quasi anacronistico, perché questo è oramai un dato di fatto da cui partire necessariamente. Dunque, un'azienda dovrebbe chiedere altro.

G.D.P.: Altro che?

L.D.: Lasciamo che siano le aziende a pensarci...

G.D.P.: Il tuo rapporto con il passato?

L.D.: Sembra banale dirlo, ma il passato è necessario per interpretare il presente e immaginare il futuro. Non si può progettare senza conoscere quello che ti circonda e, di conseguenza, anche il passato diviene fondamentale nella ricerca per poi elaborare una nuova idea.

G.D.P.: A cosa stai lavorando ora?

L.D.: Mi è stato chiesto di lavorare sul tema dell’acqua in relazione con il marmo. Per questo progetto ho creato una sorta di lavamani raccogli acqua a forma di imbuto, che permette di riutilizzare l’acqua di scarico per altre necessità che non prevedono l'uso di acqua necessariamente pulita.

G.D.P.: Lavori solo con aziende italiane o anche straniere, se sì quali differenze trovi?

L.D.: Prevalentemente lavoro con aziende italiane, ho fatto qualche esperienza all’estero e ora sto lavorando con un'azienda americana che produce mobili in kit, per la quale ho progettato una serie di contenitori modulari di varie forme e misure. Lavorare con loro è stata un'esperienza nuova. Mi sono trovato abbastanza bene riscontrando una notevole differenza rispetto alle aziende con cui sono solito dialogare, sono molto più pragmatici. Trattandosi di un’azienda che lavora esclusivamente per la grande distribuzione, le misure dei vari componenti sono state calibrate su quelle dei pallet per la movimentazione dei packaging all'interno dei magazzini e degli store. Sanno cosa vogliono. Hanno un grande rispetto per il progetto, ma deve essere ovviamente motivata e spiegata ogni scelta.

G.D.P.: Una richiesta da parte dell’azienda venuta prima o dopo che sei stato nominato ambasciatore del design italiano?

L.D.: Non ricordo, dovrei controllare [ride]. Comunque, prima, sicuramente! L'Italian Design Day è un’iniziativa promossa dalla Triennale di Milano insieme al Ministero degli Esteri. La prima volta che mi telefonarono dalla Farnesina, misi giù il telefono, perché credevo fosse uno scherzo di un amico un po' burlone. Il nostro compito è stato quello di andare in giro per il mondo, supportato dagli Istituti Italiani di Cultura, con l'obiettivo di promuovere il design italiano. La prima volta, nel 2017, sono andato a Los Angeles, quest’anno ad Algeri.

G.D.P.: Dove esattamente?

L.D.: In un museo in cui era stata allestita una mostra, dove veniva messo in relazione il design algerino con quello italiano.

G.D.P.: Com’è il design algerino?

L.D.: Devo dire che sono andato un po' prevenuto anche perché si conosce molto poco del design algerino, mentre invece mi si è aperto un mondo progettuale proiettato verso il futuro... ho trovato delle cose interessanti, in cui si sente molto il loro rapporto con l’artigianalità locale. Ho visto anche sperimentazioni sulle alghe decisamente innovative. Mi sono portato a casa l’immagine di una città in grande fermento e in continua costruzione.

G.D.P.: Per cui ti interesserebbe lavorare per loro?

L.D.: Certo, sarebbe molto stimolante.

BIO

LORENZO DAMIANI (1972) si laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano.

Si occupa di furniture e product design e ha collaborato con diverse aziende tra cui Caimi Brevetti, Campeggi, Cappellini, Ceramica Flaminia, Da a, IB Rubinetti, Illy Caffè, Lavazza, Luce di Carrara, Montina, Nodus, Ikea.

Il Triennale Design Museum gli ha dedicato la mostra personale "Ma Dove Sono Finiti gli Inventori? Lorenzo Damiani" curata da Marco Romanelli e “Prova a Prendermi", curata da Silvana Annicchiarico. La Fondazione Achille Castiglioni ha ospitato la mostra monografica "Lorenzo Damiani: Senza Stile", curata da Giovanna Castiglioni.

PALAZZO AGLIARDI

Palazzo Agliardi racchiude 500 anni di storia della città e non solo di Bergamo: l’intreccio di vicende familiari, dinastiche, imprenditoriali, artistiche e militari che questo edificio racconta e testimonia è arricchito da grandi nomi ed eventi storici che vanno oltre le mura di Bergamo e segnano da un lato la storia d’Italia e dall’altro la storia dell’arte.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. opere a Palazzo Agliardi © Ezio Manciucca - Ph. “Alla scoperta dell’infinito” © collater.al | - Ph. “Packlight” © ideamagazine.net – Ph. “Truciolari Collection” © Andrea Basile – Ph. ritratto Lorenzo Damiani © Andrea Basile | Editing di Roberta Facheris