René Descartes

René Descartes, italianizzato in Renato Cartesio, nasce in Francia nel 1596 e nel 1604 entra in collegio, dove rimane per nove anni. Fa molti viaggi in vari Paesi, per poi stabilirsi in Olanda e qui, lontano dagli obblighi sociali parigini, compone le sue prime opere e forma il proprio pensiero. Il collegio che Cartesio ha frequentato è quello dei gesuiti di La Flèche ma al termine degli studi egli avverte che, oltre a nozioni che non servono a molto nella vita, non ha appreso nessun criterio sicuro che gli faccia distinguere vero da falso. Egli, infatti, cerca un metodo che gli faccia anche godere dei frutti della terra e che miri alla conservazione della salute (pensa possa liberare l’uomo da malattie corporali e spirituali). Questo metodo deve essere valido in tutti i campi (teorico e pratico) e abbia come fine ultimo il vantaggio dell’uomo. Ad essere già in possesso di tale metodo sono le scienze matematiche ma astrarlo e formularlo rendendolo valido in tutte le branchie del sapere non è sufficiente, occorre giustificarlo. Alla fine, però, Cartesio riesce a formulare il criterio che si basa su quattro regole:

• La regola dell’evidenza (bisogna accettare come vero solo ciò che si presenta alla mente in modo chiaro e distinto escludendo ogni elemento sul quale sia possibile qualche dubbio);

• La regola dell’analisi (ogni problema complesso deve essere suddiviso nei suoi componenti più semplici da considerare separatamente);

• La regola della sintesi (passare dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente);

• La regola dell’enumerazione e della revisione (elencare tutti gli elementi individuati mediante l’analisi e rivedere tutti i passaggi della sintesi).

Il metodo non contiene la propria giustificazione ma il suo fondamento deve essere dimostrato filosoficamente. Per Cartesio trovare il fondamento del metodo è possibile: bisogna dubitare di tutto e considerare falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se si giunge ad un principio che resiste al dubbio, questo dovrà essere ritenuto saldissimo a tale da poter servire da fondamento a tutte le conoscenze, in esso si troverà la giustificazione del metodo: il dubbio metodico. Cartesio ritiene che si può e si deve dubitare delle conoscenze sensibili, perché i sensi a volte ci ingannano e perché nei sogni si hanno sensazioni simili a quelle della voglia senza che si possa trovare un criterio di distinzione. Ma ci sono anche delle conoscenza vere nel sogno e nella realtà, quelle matematiche che, come le precedenti, non possono essere sottratte al dubbio perché create o stabilite da Dio, il quale non aveva alcun limite. L’idea che queste certezza possono essere illusorie deriva a Cartesio dalla considerazione che, finché non sappiamo qualcosa di certo sulla nostra origine, si può supporre che siamo stati creati da un genio maligno, una potenza malvagia che ci inganna facendoci apparire evidente ciò che in realtà è falso e assurdo. Il dubbio si estende così ad ogni cosa e diventa universale: si giunge al dubbio iperbolico (o universale).

In questo metodo, però, è presente una prima certezza: ci si può ingannare o essere ingannati ma per farlo bisogna esistere, essere qualcosa e non nulla; ne deriva la sola proposizione assolutamente vera, “io esisto” in quanto può dubitare solo chi esiste. Ma non si può dire di esistere come corpo poiché non si sa ancora nulla dell’esistenza dei corpi per cui si esiste come oggetto pensante, che dubita. Su tale certezza deve fondarsi ogni altra conoscenza. Il principio cartesiano ripete il movimento di pensiero sviluppato già da Agostino e Campanella ma questa volta si tratta di trovare nell’esistenza del soggetto pensante il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l’efficacia dell’azione umana sul mondo. Cartesio vuole ritrovare nella stessa esistenza dell’uomo, in quanto soggetto o ragione, la possibilità di una conoscenza che gli permette di dominare il mondo per i suoi bisogni. Attorno a questo cogito ci sono, però, delle discussioni: alcuni, tra cui Arnauld, accusano il ragionamento cartesiano di essere un “circolo vizioso” poiché, se il “cogito ergo sum” (penso quindi sono) viene accettato perché evidente, la regola dell’evidenza risulta anteriore al cogito stesso (di cui fonderebbe l’evidenza) e la pretesa di giustificarla in virtù del cogito diventa illusoria. A ciò Cartesio risponde che è l’evidenza quale criterio di verità a fondarsi sulla certezza del cogito, intesa come auto evidenza esistenziale che il soggetto ha di se stesso. Di conseguenza ogni proposizione che riproduca la necessità logica di questa auto evidenza originaria risulta assolutamente vera e indubitabile. Un’altra accusa è mossa da Pierre Gassendi che sostiene che il principio del filosofo francese è in realtà la conclusione di un sillogismo abbreviato “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso. Dunque esisto”. Derivando da qualcosa di più originario, esso non può essere considerato un principio assoluto. Con l’ipotesi del genio assoluto, poi, anche la premessa “Tutto ciò che pensa esiste” viene meno. E, poiché da qualcosa che non è assolutamente certo non si può ricavare alcuna certezza, l’affermazione della mia esistenza come cosa pensante (soluzione sillogismo) risulta infondata. Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, cioè l’esito di una deduzione, ma un’intuizione immediata della mente. Thomas Hobbes, invece, sostiene che Cartesio ha avuto ragione nel dire che l’io, in quanto pensa, esiste ma torto nel pretendere di pronunciarsi su come esiste, nel definirlo “uno spirito, un’anima”. Il filosofo francese risponde che l’uomo pensa sempre quindi il pensiero, per lui, risulta essenziale, che il pensiero, in quanto atto del pensare, esige un sostegno, se c’è il pensiero dev’esserci una sostanza che sta sotto, la “res cogitans”, la sostanza anima pensante, immateriale come il pensiero cui è soggetto e di cui costituisce l’essenza.

L’idea di Dio è, invece, per Cartesio “una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente”. La causa di quest’idea non può risiedere nell’uomo, una sostanza finita, ma soltanto in una sostanza infinita, la quale ha creato l’uomo dandogli l’idea dell’infinito. Questa è la prima prova cartesiana dell’esistenza di Dio. La seconda prova, invece, dice che se sono in grado di riconoscermi come un essere finito e imperfetto è perché esiste “un essere più perfetto del mio” dal quale io dipendo e da cui ho acquisito le mie imperfezioni. Di conseguenza non sono io il creatore di me stesso ma quel Dio come perfettissimo di cui possiedo l’idea. La terza prova, invece, è quella ontologica: non è possibile concepire Dio come essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie.

Tali prove suscitarono critiche: Arnauld osservò che l’argomentazione su Dio è un “circolo vizioso”perché pretende di dimostrare l’esistenza di Dio sulla base del criterio di evidenza e ricorrendo all’esistenza di un Dio che non inganna l’uomo. Gassendi, secondo il quale l’esistenza non è un concetto presente della definizione di qualcosa, contesta, invece, la prima prova: secondo lui l’idea di Dio quale ente infinito è innata, da sempre inscritta nella mente dell’uomo ed essa è positiva o originaria, non deriva da altri concetti o esperienza. Cartesio risponde ricordando che pensare significa dubitare ed essere coscienti della propria imperfezione e che la certezza di sé e del proprio pensiero, come esseri imperfetti, esige la certezza di dio, come essere perfetto. L’idea di infinito si intuisce come nozione innata ma va dimostrato che a tale idea corrisponde un ente infinito effettivamente esistente. Quindi Dio, in quanto essere perfetto, è garante dell’evidenza: quello che appare chiaro lo è realmente perché Dio lo garantisce come tale. Allora come è possibile l’errore? Esso dipende da due cause: intelletto e volontà. L’intelletto umano è limitato (possiamo pensare ad un intelletto assai più esteso e infinito del nostro, quello di Dio). La volontà umana, invece, è libera quindi molto più estesa dell’intelletto e consiste nella possibilità di fare scelte in merito a cose che l’intelletto presenta in modo chiaro e distinto e a quelle che non hanno chiarezza e distinzioni sufficienti. L’errore sta nella possibilità di affermare o negare ciò che l’intelletto non percepisce chiaramente quindi l’errore si può evitare solo sbilanciandoci su cose chiare, distinte. L’evidenza consiste a Cartesio di eliminare il dubbio sulla certezza delle idee evidenti quindi se ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi vuol dire che realmente esistono delle cose corporee corrispondenti alle idee che ho di esse.

Secondo il filosofo i corpi non possiedono realmente tutte le qualità che noi percepiamo difatti fa una distinzione tra proprietà oggettive (le determinazioni quantitative come forma,grandezza, durata, numero) e proprietà soggettive (qualità dipendente dalla percezione che il soggetto ha di esse come colore, sapore, odore). Quindi Cartesio ammette, oltre alla sostanza pensante (res cogitans, l’io) incorporea, inestesa, consapevole e libera, anche la sostanza estesa (res extensa) corporea, spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata. In questa concezione, il dualismo cartesiano, tutte le attività spirituali (pensare, volere, desiderare….) sono “modi” di essere della sostanza pensante che tende ad identificare con “l’anima” individuale mentre tutti i corpi sono “modificazioni accentali” dell’unica sostanza estesa. Per riunire queste due sostanze il filosofo ricorre alla teoria della ghiandola pineale, la sola parte del cervello non doppia e che quindi può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso (tutti doppi).

Cartesio inoltre depura, anche meglio di Galilei, la fisica dalle scorie del passato dando vita al meccanicismo che incide sulla mentalità scientifica del ‘600. Col suo metodo, però, Cartesio tendeva a generalizzare la visione della natura e i fenomeni naturali. Il filosofo, però, non credeva nella casualità della natura bensì nella sua causalità: i fenomeni si svolgono secondo il principio di oggettiva necessità causale. Questa è una necessità logico-matematica: assunta un’ipotesi, l’andamento di un fenomeno può essere dedotto matematicamente da essa.

Oltre che nella metafisica, Cartesio opera anche nella fisica il salto dall’ordine logico a quello ontologico (aspirazione ultima del razionalismo). La geometria (unica scienza fisica ammessa da Cartesio) è la più importante delle tre opere introdotte dal “Discorso sul metodo” e costituisce l’atto di nascita della geometria analitica. Quest’unione, però, rende necessaria una revisione delle due scienze perché la geometria degli antichi non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario per un’impostazione sistematica della scienza e la nuova scienza algebrica risulta al filosofo confusa e oscura per l’uso di simboli inadeguati e per il rapporto di dipendenza che la lega alla geometria. Ciò che ne deriva è una razionalizzazione dell’algebra con un linguaggio che si adatta alla geometria: un’algebra applicata. Il sistema di riferimento in cui inscrivere la natura sono gli assi cartesiani che si costruiscono assumendo un’unità di misura, che consenta di interpretare un numero come una distanza, e una coppia di linee fondamentali, gli assi cartesiani, come sistema di riferimento.

Per il filosofo francese il mondo si identifica con l’insieme dei corpi, con l’estensione, quindi la fisica è riconducibile alla geometria. La fisica cartesiana, infatti, pretende di ricondurre tutti i fenomeni fisici a estensione e moto, che hanno origine da Dio. Ma l’identificazione della materia con l’estensione comporta anche delle conseguenze:

  • lo spazio euclideo è finito quindi è finita anche la sostanza estesa;
  • lo spazio geometrico è infinitamente divisibile quindi la materia non può essere costituita di atomi;
  • lo spazio è continuo, non ammette buchi quindi è inconcepibile il vuoto; le qualità attribuite alla materia, sommate all'estensione, sono soggettive quindi lo spazio è qualitativamente indifferenziato.

L’unico motore del mondo è l’originaria qualità di moto in quanto Cartesio esclude dalla spiegazione del mondo ogni forza (anche quelle che si manifestano a distanza). Solo due leggi regolano la fisica cartesiana: il principio di inerzia e il principio della conservazione della quantità di moto. Avendo escluso l’esistenza del vuoto Cartesio sostiene che la materia sottile (etere) che riempie ciò che viene chiamato vuoto, è costituita da corpuscoli, frammenti minutissimi di estensione, soggetti ognuno a una differente condizione inerziale. Il filosofo definisce anche l’uomo come una macchina in virtù dell’inerzia e della conservazione della quantità di moto.

Cartesio stabilisce anche regole di morale provvisoria:

  • obbedire a leggi e costumi del paese, osservando la religione tradizionale e stando lontani dagli eccessi;
  • essere fermi e risoluti nelle azioni e seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa;
  • vincere piuttosto che la fortuna e cambiare i propri desideri più che l’ordine del mondo.

Di quest’uomo, considerato uno dei padri della scienza moderna, abbiamo due immagini: una mostra il suo aspetto fisico e l’altra quello caratteriale e psicologico. Il primo è un ritratto conservato al Louvre che per molto tempo è stato attribuito al ritrattista olandese Frans Hals; l’altro, invece, è il libro “Il filosofo, il sacerdote e il pittore” di Steven Nadler col quale l’autore ci mostra la filosofia cartesiana da un’altra prospettiva,, quella del protagonista.

Ritratto di René Descartes di Frans Hals

Se poi si vuole entrare ancora meglio nella mentalità di Cartesio lo si può fare con la visione del film “Cartesius” del 1973 diretto da Roberto Rossellini che ci fa rivivere tutta la vita del filosofo francese. (https://www.youtube.com/watch?v=T9cq7G8hoAE&t=524s )

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